Per organizzare e gestire realtà aziendali complesse alcuni studiosi di management hanno pensato che definire le cose da fare e fissare delle regole affinché queste fossero svolte nel modo migliore portasse a risultati positivi, anzi molto positivi. In realtà ha portato tutte le strutture che hanno puntato in questa direzione a “burocratizzarsi”. La conseguenza di questa burocratizzazione è stata una progressiva inibizione dell’innovazione e la percezione che le persone fossero dei buoni manager non se raggiungevano risultati ma se rispettavano le regole. Crollava qualsiasi tipo di meritocrazia che non fosse quella di attenersi a quanto sancito dai manuali organizzativi.
Ho avuto esempi clamorosi di quest’impostazione in aziende che sulla carta aborrivano simili approcci, ma anche in aziende che inizialmente non era imbrigliate dalla burocrazia, ma che crescendo lo sono diventate. Sugli effetti nefasti della “burocratizzazione” avevo già avuto modo di richiamare l’attenzione in questo articolo, in quanto è da ritenersi uno dei mali dell’Italia. Trova una puntuale espressione nelle norme che governano il funzionamento dello Stato ed in particolare della Pubblica amministrazione. Questo fenomeno si è poi diffuso per contaminazione alle imprese a partecipazione statale e anche a quelle poche grandi realtà di imprese private come erano il Gruppo Fiat (oggi nell’auto FCA più altro), Assicurazioni Generali, Edison, Conad, il Gruppo Pirelli ed altre realtà ancora. Ma l’effetto peggiore della “burocrazia” più che l’appiattimento delle competenze delle persone è stato un altro: le persone tendono a diventare automi e il fatto di provare delle emozioni è un fatto da evitare. La persona non è più al centro o lo è solo quando si debbano definire retribuzioni ed eventuali incentivi. Ma non è così. Se nelle imprese vi sono persone senza anima e senza coscienza questo non significa che tutti siano così. Ce lo raccontavano già Douglas McGregor e Rensis Likert e il ’68, pur con tutti i suoi limiti di ideologie forti che volevano affermarsi: molti richiamavano la natura e la centralità del ruolo della persona nelle imprese.
È opportuno ricordare di Likert due lavori: il primo del 1961, New Patterns of management, nel quale viene proposta una sperimentazione in azienda per capire i risultati che si ottengono nel passare dai modelli autoritari (autoritario sfruttatorio, autoritario benevolo, consultivo) ad un modello partecipativo basato sul lavoro in team; il secondo del 1967, The Human Organization (Il fattore umano nella organizzazione, Isedi 1971), che ribadisce la valenza positiva del sistema partecipativo da lui etichettato come Sistema 4 e come evoluzione dei 3 sistemi autoritari.
Anche i contributi di Douglas McGregor sono in questa direzione ed in particolare questo studioso è famoso per aver evidenziato quanto le soluzioni organizzative adottate in un’impresa siano influenzate dalle convinzioni che i vertici aziendali hanno sulla natura e il comportamento degli esseri umani (The Human Side of Enterprise, McGraw Hill, New York 1960). Si possono così distinguere due teorie fra loro opposte. La Teoria X che si basa sull’idea che:
1. l’uomo medio ha una ripugnanza per il lavoro e, se possibile ne fa a meno;
2. causa queste caratteristiche la maggior parte delle persone deve essere costretta, controllata, comandata, minacciata di punizioni se si vuol ottenere uno sforzo adeguato al perseguimento degli obiettivi dell’organizzazione;
3. mediamente una persona preferisce essere diretta, cerca di evitare le responsabilità, ha ambizioni scarse e cerca soprattutto sicurezza.
Per contro la Teoria Y ha premesse molto diverse. I vertici aziendali muovono dall’idea che:
1. il dispendio di sforzi fisici e mentali durante il lavoro è una cosa naturale come lo svago o il riposo;
2. il controllo dall’esterno e la minaccia di sanzioni non costituiscono gli unici mezzi per indirizzare gli sforzi verso gli obiettivi dell’organizzazione. L’uomo può esercitare l’autodisciplina e l’autocontrollo in funzione degli obiettivi in cui è coinvolto;
3. l’impegno nel perseguire determinati obiettivi è in funzione delle ricompense associate al loro conseguimento;
4. mediamente una persona impara non solo ad accettare, ma anche ad assumersi delle responsabilità;
5. la capacità di sviluppare un alto grado di fantasia, l’inventiva e le capacità creative nella soluzione di problemi organizzativi si trovano distribuite fra le persone e non sono una rarità;
6. nelle attuali condizioni gestionali le potenzialità intellettuale delle persone vengono utilizzate solo parzialmente.
Queste teorie, quando si traducono nella pratica aziendale, si confermano e si rafforzano sempre di più nel tempo. Pertanto i vertici si convincono che la loro teoria da loro sposata, X o Y che sia, sia quella vera e non cambiano nel tempo la loro opinione sulle persone e sulla loro natura. In Italia uno studioso che in quegli stessi anni suggeriva di valorizzare le persone e il lavoro fu Carlo Masini prima con il suo L’organizzazione del lavoro nell’impresa (Giuffrè 1971) e poi in Lavoro e risparmio: economia d’ azienda (Utet 1970). Dirompente per quegli anni fu la proposta di inserire negli organi di governo delle imprese anche i dipendenti, ad esempio creando dei Consigli di amministrazione allargati non solo alla componente degli azionisti. Così come precorse i tempi con l’idea che nel comporre le scelte la convenienza economica non potesse prescindere dalla verifica di compatibilità e coerenza con le finalità sociali di un’azienda. Questi ed altri lavori rappresentavano quel ricco contesto teorico che, quando nel 2020 mi capitò per la prima volta tra le mani Humanocracy, non mi sorprese il prezioso back to the past realizzato e fui convinto dell’utilità della proposta in esso formulata poiché nel frattempo molte organizzazioni, molte anche a conduzione manageriale, si erano “burocratizzate”. Mi apparve un approccio molto realistico quello di Hamel e Zanini: rimettere al centro le persone per valorizzarle e cercare di liberarsi della burocrazia. Il riconoscimento avuto dal libro in questi tre anni dalla sua uscita è di per sé una testimonianza che l’utilità percepita non sia solo mia ( https://www.humanocracy.com).
Humanocracy esplora il modo in cui le organizzazioni possono – e dovrebbero – abbandonare le idee burocratiche sull’importanza dell’obbedienza e dell’efficienza dei dipendenti a favore di ideali incentrati sull’uomo avendo in mente di promuovere l’innovazione e l’ispirazione creativa dei dipendenti. In tal modo, sostengono gli autori Gary Hamel e Michele Zanini, queste organizzazioni possono far emergere il pieno potenziale dei singoli, con il risultato di avere persone più felici e aziende con risultati migliori. Il libro è un interessante lavoro, nel quale si esplora in primo luogo quali appaiono essere i principi di un’azienda incentrata sull’uomo. Successivamente vengono esaminati sia i perché di questi princìpi che le modalità con le quali mettere in pratica questi stessi princìpi. Il nostro commento esplorerà alcune delle discipline come le neuroscienze e degli studi che mettono al centro le persone. Tutto ciò è importante anche per un altro rilevante rischio emergente e dovuto al fatto che anche il lavoro creativo potrà essere automatizzato. Basti ricordare che i programmi di intelligenza artificiale possono già oggi trasformare i suggerimenti di testo in opere d’arte e scrivere saggi quasi istantaneamente.
Per chiarire ulteriormente perché credono che le aziende incentrate sull’uomo siano importanti, gli autori hanno creato una gerarchia di principi che, secondo loro, ogni azienda deve incarnare per avere successo. I livelli più alti di questa gerarchia sono principi che possono essere raggiunti solo dalle aziende che sono incentrate sull’uomo.
Come la famosa gerarchia dei bisogni di Maslow la piramide dei bisogni aziendali di Hamel e Zanini è quella in cui ogni livello supporta i livelli superiori; in altre parole, si deve iniziare dal basso per poi risalire. Dalla loro Ricerca sul campo emerge che le aziende di maggior successo sono quelle che integrano tutti e sei i livelli, inclusi i livelli più alti e incentrati sull’uomo, nelle loro pratiche aziendali.
I 5 bisogni di ogni essere umano secondo la piramide proposta da Abraham Maslow (1954)
I sei livelli sono, in ordine decrescente di importanza:
Livello 6: Coraggio
Livello 5: Ingegno
Livello 4: Proattività
Livello 3: Competenza
Livello 2: Coscienziosità
Livello 1: Conformità di alcuni comportamenti
Contrappunto parziale: soddisfa tutte le esigenze in ogni momento
Hamel e Zanini affermano che la loro piramide delle esigenze aziendali, come quella di Maslow, deve essere costruita e implementata partendo dal basso e lavorando verso l’alto. Tuttavia, questo ordine rigoroso potrebbe anche non essere necessario per poter svolgere al meglio le gerarchie di odine superiore. Gli psicologi generalmente concordano con le idee di Maslow su ciò di cui gli esseri umani hanno bisogno, ma mettono in dubbio la sua affermazione secondo cui tali bisogni devono essere soddisfatti in un ordine specifico. In effetti, il concetto stesso di “bisogno” implica che le persone dovrebbero avere tutte queste cose in ogni momento. Ad esempio, qualcuno che soffre di insicurezza alimentare (un bisogno di livello inferiore) può comunque beneficiare emotivamente dall’avere amici intimi (un bisogno di livello superiore). Lo stesso principio vale per le aziende: anziché pensare alla gerarchia delle esigenze aziendali come a una lista di controllo da completare in ordine, si può provare a visualizzarla come un elenco di cose da incoraggiare in ogni momento, da parte di tutti i dipendenti. Ad esempio, un lavoratore che non è particolarmente esperto nel suo lavoro (competenza) potrebbe comunque avere un’idea brillante su come migliorare l’azienda (ingegnosità).
Esamineremo ora ogni livello della piramide proposta dagli autori in modo più dettagliato.
I tre livelli inferiori per rendere funzionale un’azienda
Il livello inferiore della piramide proposta è la conformità. Sebbene un’umanocrazia si basi sull’ingegno e sulla libertà, devono comunque esistere alcune regole di base come quelle in materia di sicurezza, servizio clienti e utilizzo delle risorse aziendali. Ad esempio, senza alcune regole, un dipendente senza scrupoli potrebbe prendere per sé i fondi dell’azienda e non produrre nulla in cambio. In breve, la conformità dei comportamenti è la base su cui deve essere costruita qualsiasi attività di successo. E qui si potrebbe ricordare quanto spesso si sottolinei in fase di selezione del personale: è importante valutarne i valori individuali per verificarne la sintonia con i valori aziendali. Sono proprio i valori dei singoli quelli che possono spingere a comportamenti non in “conformità”.
Il secondo livello è la coscienziosità. In poche parole, se si vuole che un’organizzazione funzioni è opportuno che i lavoratori svolgano il proprio lavoro in modo attento e puntiglioso. Questo è strettamente correlato al terzo livello, competenza: i dipendenti devono avere una formazione ed un’esperienza sufficienti per svolgere bene il proprio lavoro.
Così come il guru del marketing, Seth Godin nel suo libro Purple Cow, sostiene che al giorno d’oggi ci sono troppi prodotti sul mercato per limitarsi a fare un prodotto semplicemente “buono”. Affinché il tuo prodotto abbia successo, deve essere speciale o straordinario in qualche modo, deve distinguersi. Hamel e Zanini applicano questa logica all’azienda nel suo complesso: non è più sufficiente che i tuoi dipendenti facciano bene il proprio lavoro. Per distinguersi nell’attuale contesto è necessario creare un’organizzazione eccezionale che incoraggi i dipendenti a proporre idee eccezionali.
I 3 livelli più alti: possono rendere grande un’azienda
Il livello successivo della piramide degli autori è la proattività. Rompere le abitudini rigide e burocratiche richiede dipendenti disposti a prendere l’iniziativa: andare oltre le loro responsabilità lavorative di base per risolvere i problemi e migliorare i risultati aziendali. Certo questo richiede anche un’azienda che consenta alle persone di farlo.
Così i dipendenti proattivi e le nuove iniziative non portano sempre ai risultati desiderati; l’azienda potrebbe affrontare alcuni fallimenti prima di trovare un’idea che funzioni, che risolva un problema o ne migliori il funzionamento. Bisogna avere pazienza ricordando che anche degli errori possono essere preziosi: ogni fallimento è un’opportunità per imparare ed è quindi un passo verso il raggiungimento dell’obiettivo finale: creare un’azienda redditizia che sia appagante per i suoi dipendenti. In altre parole, non rinunciare a costruire un’azienda incentrata sull’uomo solo perché alcune delle iniziative dei dipendenti non vanno come si sperava.
La proattività è strettamente correlata al livello successivo, l’ingegnosità: avere la creatività e l’intelligenza necessarie non solo per prendere l’iniziativa, ma anche per farlo in modo efficace. Un dipendente che è proattivo ma non creativo potrebbe assumersi la responsabilità di risolvere un problema e peggiorarlo per mancanza di immaginazione, oppure potrebbe dedicare una quantità irragionevole di tempo e di energia a risolvere il problema quando è possibile una soluzione più efficiente.
Se il dipendente si muove in questa direzione proattiva come si può sapere se la sua idea sarà efficace ed efficiente? Una possibilità suggerita da Hamel e Zanini è quella di usare il metodo delle “3 S”:
-l’idea è una soluzione a un problema reale?
è la soluzione più Semplice disponibile?
è una soluzione condivisa con colleghi che l’hanno perfezionato e ne hanno cercato i possibili punti deboli?
Se un’idea soddisfa tutte e tre queste 3 S, è probabile che valga la pena perseguirla.
Infine, il livello più alto della piramide delle esigenze aziendali è il coraggio: essere pronti a formulare e implementare idee e soluzioni rischiose. Il coraggio è ciò che consente ai dipendenti di innovare veramente; mettersi in gioco, provare cose nuove e accettare i risultati, buoni o cattivi che siano.
Il modello a bilanciere della gestione del rischio
Gran parte di Humanocracy riguarda l’importanza di avere il coraggio di correre dei rischi. Ma su questo aspetto Hamel e Zanini non offrono molti consigli su come farlo in modo sicuro o efficace. In proposito può aiutare Antifragile dell’analista del rischio, Nassim Nicholas Taleb, il cui Cigno nero ha condizionato un decennio. Taleb nel suo libro descrive quello che lui chiama il “modello del bilanciere” nell’assunzione di rischi: implementare una combinazione di misure estremamente sicure e prudenti con decisioni ad alto rischio ma con un alto rendimento potenziale. Una sorta di portafoglio progetti a differente rischiosità. Con il “coraggio” si arriva al vertice della piramide. Sulla base di queste riflessioni si può cogliere che i livelli più alti della piramide sono difficili da raggiungere, ma sono imprescindibili poiché sono esigenze dettate dell’attuale contesto ambientale è necessario cercare di raggiungerli.
È opportuno inoltre sottolineare come i vertici della piramide proposta indichino esigenze-caratteristiche delle persone che hanno uno spirito imprenditoriale. Forse qui sta il segreto dell’Italia: una diffusa e spiccata imprenditorialità nelle imprese e anche fuori dalle imprese. Questo potrebbe facilitarci nei prossimi anni a gestire efficacemente le imprese. E questo è inoltre un altro back to the past: nella letteratura di management ci fu la proposta (Management Imprenditoriale Etas Libri Milano 1991), da parte di tre studiosi della Scuola di Direzione Aziendale della Bocconi (G. Invernizzi, M. Molteni, G. Corbetta) di attivare e valorizzare nelle imprese una diffusa imprenditorialità tra le persone che in esse operano. Quest’atteggiamento avrebbe spinto allo sviluppo di nuovi business e a realtà propense, più in generale, all’innovazione. Ed è proprio per questo che il caratterizzarsi per una imprenditorialità diffusa, nell’attuale contesto ipercompetitivo, può rappresentare un elemento di successo.
Resta il fatto che i tre livelli più alti della piramide – proattività, ingegnosità e coraggio – possono essere raggiunti solo quando le persone sono impegnate e attente a ciò che fanno. I due studiosi sostengono che il coinvolgimento dei dipendenti non può essere il risultato di pratiche di tipo burocratico, né derivare da ordini impartiti da gerarchie manageriali; il coinvolgimento si ottiene solo quando le persone credono davvero nel lavoro che fanno, ne capiscono l’utilità e hanno concorso a disegnare le cose da fare.
Dunque, un libro prezioso per i suggerimenti che offre e che tengono conto anche delle indicazioni che arrivano da contributi del passato: cercare di dare la giusta centralità nella gestione di impresa alle persone. Una corrente di pensiero che sta coinvolgendo sempre più individui e ha portato alla creazione di un movimento: The New Human Movement, al quale stanno aderendo anche molti studiosi, alcuni dei quali hanno offerto un loro contributo sul canale YouTube del movimento.
Molte delle idee sin qui proposte aiutano a progredire nella valorizzazione dell’human side of enterprise.
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