Sembrerà strano, ma non è ancora stata risolta. L’idea si è evoluta, ma una sua definizione largamente condivisa non esiste ancora. È dal 1965, quando venne pubblicato il primo libro di Ansoff dedicato alla “Corporate Strategy”, che si cerca di delimitare il perimetro entro il quale delineare i tratti della strategia aziendale. Un grosso contributo, a mio avviso venne da Kenneth Andrews con il suo Corporate Strategy, prima oggetto di Working Paper all’interno dell’Harvard Business School (1965), sfociati poi nella pubblicazione nel 1971 di The Concept of Corporate Strategy (Edizione rivista nel 1980). Intanto emergeva in Amos Tuck, la scuola dell’incrementalismo logico di James Brian Quinn, di cui fu poi un importante sostenitore Henry Mintzberg.

A suggellare l’evoluzione dell’idea di strategia ci sembra opportuno ricordare la recente pubblicazione, per il mercato italiano (2022), del libro di Richard Rumelt “Good Strategy, Bad Strategy”.

Nel libro, questo Professore emerito della Business School che fa capo all’Università della California Los Angeles, suggerisce di detronizzare quella cultura che fa strategy washing, spacciando per strategie aziendali miscugli di slogan motivazionali e di frasi fatte (del tipo “al centro ci sono i nostri clienti” – questa non è strategia, è a livello operativo un imperativo categorico) e di frasi spesso anche vuote. Queste sono, a suo avviso, le “strategie cattive”, inutili ed anche pericolose poiché illudono di averne una. Inoltre, sottolinea quanto le “buone strategie” non dipendano solo dai modelli teorici applicati, ma dalle competenze che si hanno in impresa e che attraverso la strategia vengono valorizzate. La scuola californiana è da sempre attenta all’idea di una strategia basata sulle risorse e, in particolare sulle competenze (si vedano anche i libri di Robert Grant).

Ma una frase suggella l’approccio alla strategia da lui suggerito. Considerando anche le imprevedibili dinamiche ambientali, non resta che una constatazione: “a good strategy is often unexpected” (“una buona strategia è spesso inaspettata”). Ed eccoci approdare a Porter. Prima del presente contributo, chi segue questo blog, sa che avevamo già parlato dell’articolo il cui titolo (What is strategy? – Hbr) ispira ancora queste nostre riflessioni sulla strategia. L’articolo è del 1996, ma l’autore lo ricorda e ne fa un preciso rimando nella Prefazione della pubblicazione nel 2004 da parte di Free Press Export rivolta in specifico al mercato inglese. Ma questo contributo ha avuto altri riconoscimenti, primo fra tutti l’inserimento in numerose raccolte di articoli dedicati alla strategia. In questo articolo Porter conferma l’approccio da lui proposto e torna a sottolineare quanto scritto in un precedente articolo dal titolo emblematico: From competitive advantage to corporate strategy (Hbr May-June 1987).

Il vantaggio competitivo è il risultato della strategia realizzata, di una serie di scelte che spesso coinvolgono una pluralità di aree gestionali. Tale passaggio è tanto più rilevante quanto più i mercati e le tecnologie diventano dinamiche, sino al punto di mettere in discussione la sostenibilità di un vantaggio competitivo. Sotto la pressione per migliorare la produttività, la qualità e la velocità, i manager hanno abbracciato strumenti come TQM, benchmarking e reingegnerizzazione. Sono risultati rilevanti miglioramenti operativi, ma raramente queste applicazioni si sono tradotte in redditività sostenibile. Purtroppo gradualmente, gli strumenti hanno preso il posto della strategia. L’articolo del 1996 è suddiviso in cinque parti. Michael Porter esplora come quel cambiamento abbia portato all’ascesa di battaglie competitive reciprocamente distruttive che hanno danneggiato la redditività di molte aziende. Mentre i manager spingono a migliorare tutti i fronti, si allontanano da posizioni competitive vitali. L’idea è che l’efficacia operativa, anche se utile per portare l’impresa a prestazioni superiori, non è sufficiente. Questo anche perché le sue tecniche sono facili da imitare e difficilmente consentono di diventare unici.

Al contrario, l’essenza della strategia sta in alcune scelte che definiscono una “direzione” da seguire: crescere o non crescere; scegliere se praticare strategie di focalizzazione o di diversificazione; cercare di individuare degli elementi di unicità, difficilmente imitabili e radicati nel business model praticato e non solo nei sistemi di attività primarie, ma anche delle attività di supporto. Porter traccia quindi le basi economiche di un vantaggio competitivo che può arrivare fino al livello di attività specifiche. Ma tali scelte sul come competere sono l’essenza della strategia competitiva, ma derivano da una strategia aziendale chiara che riguarda “dove competere” e i cui estremi sono: o una leadership di costo o una strategia di differenziazione o una possibile loro varia combinazione. Nell’articolo, presentando casi come Ikea e Vanguard, l’autore sottolinea come fare combinazioni tra le varie attività sia l’essenza della strategia competitiva. Mentre i manager si concentrano spesso su singoli componenti del successo come le competenze chiave o le risorse critiche, Porter mostra come la gestione di tutte le attività di un’azienda migliora sia il vantaggio competitivo che la sua sostenibilità. Pur sottolineando il ruolo della leadership nel fare e far rispettare le scelte strategiche, Porter offre anche consigli su come le imprese possono e debbano riconnettersi con strategie che si sono sfocate nel tempo.

Ora dovrebbe essere più chiaro che cos’è la strategia. Quest’articolo è una pietra miliare ma non è ancora quello conclusivo. Rappresenta comunque un punto di riferimento quando si riflette sulla formulazione della strategia aziendale e si desiderino evitare confusioni. C’è la strategia aziendale, che si caratterizza anche per delle scelte di strategia competitiva e che può avvalersi di strumenti ed approcci per migliorare la gestione operativa e i suoi risultati. Ma la strategia può essere osservata anche da altre angolature e non si può dimenticare il tridimensionale contributo di Ansoff (vedi figura 1) quando propone l’idea di strategic management (Gestione strategica). In figura si può notare che uno di queste possibili angolature è quella “razionale” rappresentata dal processo di strategic planning, che peraltro non è la strategia, ma può solo essere vista come un processo a supporto dell’attuazione della strategia.

Figura 1 – Le diverse possibili angolature caratterizzanti lo Strategic Management Process (Processo di gestione strategica) nel sistema di pensiero di Igor Ansoff

Per avvicinarci ad una definizione completa e condivisibile dovremo quindi spostarci sul fronte dello “strategic process”, dove una volta formulata la strategia si tratta nelle fasi successive di attuarla e poi di controllarla, per capire se e come possa essere eventualmente necessaria una revisione della strategia che si sta realizzando. Nel nostro sistema di pensiero la formulazione della strategia riguarda le scelte relative e “dove competere” e “come competere” che porteranno a specifici risultati nel tempo. Diventa fondamentale, per interpretare l’impatto del disegno strategico complessivo, osservare le performance aziendali sull’ arco di 5-10 anni. Su questi risultati influirà anche quanto e come si riesce ad attuare della strategia deliberata. Quindi, una volta composte le scelte qualificanti la strategia e relative alla domanda “dove vogliamo andare” ci sarà la necessità di rispondere, tendenzialmente in via anticipata rispetto allo svolgersi della gestione, ad una terza domanda: “cosa dobbiamo fare per andare nella direzione desiderata?”. Si può pianificare o utilizzando il piano strategico o ricorrendo alla Balanced Scorecard. Il passo successivo è quello di dare attuazione concreta e quotidiana a quanto pianificato. Il circuito si chiude con il controllo della strategia, dove, inutile ribadirlo, secondo me è la Balanced Scorecard che risulta ancora una volta concreta e facilitante.

Ecco, dunque, che la proposta di Porter riguarda la definizione della strategia aziendale che è opportuno cercare di definire in modo chiaro e condiviso, partendo da dove siamo (“Where are we now”) e dove sta andando il mondo. Due interrogativi talvolta affrontati con superficialità nell’avviare il processo dal quale scaturirà la strategia aziendale (corporate strategy). Le domande proposte anche in Figura 2 sono ormai consolidate nelle prassi di molte imprese così come sono state proposte da Roland Christensen che, nel 1951, ad Harvard, insieme ai colleghi N. Berg e M. Salter, fu tra i precursori di questo filone di studi che allora era ancora connotato dal termine Policy Formulation and Administration. (Ed. Irwin). Il libro che nel 1980 vide pubblicata la sua 8° Edizione venne nel contempo affiancato dall’altro testo della scuola harvardiana Business Policy, creando un team del quale hanno fatto parte, tra i più conosciuti: Kenneth Andrews, Michael Porter e Joseph Bower.

Figura 2 – Gli interrogativi “chiave”, momenti di riflessione dai profondi connotati strategici (Roland Christensen, Norman Berg e Malcom Salter – Irwin 8° Ed. 1980, pag.12)

La strategia si completa con la definizione delle azioni che si reputano necessarie per darne attuazione. La risposta alla domanda “dove siamo” è tipica del momento di “controllo” che è sia il momento iniziale in un processo circolare, sia un momento che si ripete, a scadenze scelte dai vertici aziendali. In questo momento, nel durante, se si utilizza una certa strumentazione, si può effettuare, quello che, sul piano dell’apprendimento organizzativo, è l’arricchente confronto con il “dove si desiderava essere”.

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