Quando si riflette sulla valutazione delle performance aziendali è fondamentale ricordarsi che non si deve misurare tutto ma solo l’essenziale. Quello che si deve misurare che si può definire solo dopo aver precisato cosa si vuole misurare e perché. In quest’ottica, se si deve comunicare con gli analisti finanziari, si può usare il loro linguaggio e quindi dopo l’Ebitda, può andar bene l’Economic Value Added (Eva) o il Free Cash Flow, anche se è comunque necessario calcolare il Ke (cost of equity), e ci si può accontentare dell’ancora più semplice Roe. Se si deve pilotare la crescita e renderla finanziariamente sostenibile entrano in gioco il growth rate (g o delta Capitale investito %), il Roe’ (Redditività dei mezzi propri calcolata sui mezzi propri iniziali) e il grado di indebitamento (td o grado di indebitamento Mezzi terzi/Mezzi propri). Se si vuole apprezzare la perfomance aziendale in termini complessivi e nelle sue valenze strategiche le poche misure (16 al massimo) proposte dalla Bsc lungo le quattro prospettive: economico-finanziaria (financial perspective), clienti (Customer perspective), processi (process perspective.) e apprendimento e sviluppo (learning & growth perspective). Ma queste proposte non sono o lo sono parzialmente soddisfacenti rispetto ad un problema: come misurare e valutare il contributo offerto dalle risorse e dagli asset intangibili alla generazione del reddito aziendale.

In proposito è sicuramente utile il modello proposto da V. Coda (1990) per valutare la qualità del reddito, valutazione opportuna quando si svolgano analisi di bilancio a fini di apprezzamento del profilo strategico di un’impresa. Con il modello, viene enfatizzata la necessità di apprezzare la qualità del reddito. Il reddito, generato dai flussi economici e finanziari evidenziati dal bilancio, può essere valutato in misura più o meno positiva quanto più sia influenzato da flussi di risorse intangibili. In presenza di tali flussi, dalla loro consistenza e dalla loro destinazione dipende la capacità dell’impresa di generare adeguati flussi di reddito nel tempo e quindi l’attuazione di un orientamento strategico al lungo termine. Si tratta quindi con riferimento a queste risorse di raccogliere informazioni qualificanti e, se possibile, di quantificarne l’entità, in termini di spesa sostenuta. Certo è che in questi ultimi anni, la letteratura, sotto la spinta dal crescente ruolo di queste risorse, ha cercato nuove misure, ritenendo quelle disponibili non adeguate. Non a caso sono state citate in apertura alcune scuole di pensiero. Quella di creazione del valore economico per gli azionisti arrivava ad affermare: un Eva nel tempo positivo o un Free cash flow maggiore di zero sono l’espressione tangibile di questi asset intangibili. E sin qui tutto bene. Peccato che per calcolare queste grandezze sia necessario determinare il Ke non sempre di oggettiva determinazione. Diventa, invece, molto più difficile concordare sul fatto che l’entità di queste due grandezze economiche sia l’espressione di quanto valgono questi asset. D’altra parte Baruch Lev uno dei principali esponenti di questa scuola, candidamente affermava, e i tempi lo giustificavano: la differenza tra il market value e il book value è da ascriversi alla valutazione riconosciuta dal mercato mobiliare agli asset intangibili di un’impresa. Purtroppo anche questa differenza come è oggi evidente non è detto che sia oggettiva e può essere condizionata anche da altre variabili.

In questa corsa verso una misurazione delle performance aziendali sempre più completa e raffinata non sempre ci si è guardati indietro. Così, se la determinazione di quale sia il valore economico di queste risorse intangibili, come si sarà già intuito, non è attività semplice, l’Ifrs art.38 ha dato in proposito qualche indicazione. Far riferimento al costo, interno o di acquisizione all’esterno, che si è sostenuto per avere la disponibilità di un asset intangibile. Dato che questo valore, che è quello con il quale l’asset viene iscritto a bilancio, può risultare nel tempo non più congruo viene indicata la necessità di sottoporre questi valore all’impairment test. Alla fine ne risulta che forse è più semplice ed altrettanto utile determinare se questi asset offrono un contributo alla generazione del reddito e in che misura lo generino. Questo poiché per queste misurazioni degli indicatori già esistono, si tratta solo di riscoprirli. Fra l’altro si è in parte dimenticato che erano anche considerati rilevanti. Questione di mode si potrebbe pensare. Ma non è questo ciò che interessa. Gli indicatori ai quali ci si richiama ruotano intorno ad una grandezza, amata soprattutto dalla scuola contabile francese, e che oggi va riscoperta per il suo significato segnaletico: il valore aggiunto. D’altra parte negli anni in cui l’Europa non era ancora unita, ogni Paese europeo aveva la sua impostazione contabile e un’impostazione di conto economico preferita. Alla fine il conto economico, secondo l’impostazione dell’Unione economica, risulta, almeno così si ritiene, uno splendido compromesso derivante dal mix delle diverse scuole di pensiero che purtroppo, invece, di costituire un progresso fa registrare uno splendido regresso. C’è il valore della produzione, ma non c’è il valore aggiunto, non c’è il reddito operativo e c’è solo un gran dettaglio su elementi di reddito poco attinenti con la gestione caratteristica dell’azienda e di collegamento con il reddito netto. Anche in tema redazione del bilancio l’Europa ha splendide possibilità di miglioramento e c’è ancora molto da fare.

Ma se quel che c’è non è perfetto, non per questo è opportuno bloccarsi. Per fortuna il conto economico scalare può essere impostato con la logica che meglio risponde ai fabbisogni informativi dell’alta direzione. E anche la sua elaborazione evidenziando il valore aggiunto richiede, partendo dai ricavi, solo un ordine diverso di aggregazione e presentazione dei costi (Airoldi-Brunetti-Coda,1989). L’idea di valore aggiunto è infatti semplice. È l’espressione economica della valorizzazione che l’impresa riesce a realizzare dei fattori produttivi in entrata dall’esterno e impiegati per confezionare il prodotto/servizio offerto ai clienti. Così, la caratteristica di un costo di essere portato o meno in deduzione dei ricavi per determinare il valore aggiunto non è assoluta ma dipende dalle scelte aziendali. Il costo della movimentazione delle merci, ad esempio, se è effettuato con personale e mezzi interni non entra nel calcolo del valore aggiunto. Viceversa se ci si appoggia ad un’impresa di logistica esterna il costo che ne deriva va dedotto dai ricavi di vendita e concorre a condizionare l’entità del valore aggiunto. Il valore aggiunto si ottiene quindi come differenza tra i ricavi di vendita e i costi relativi ai fattori produttivi acquisiti all’esterno dell’impresa e destinati allo svolgersi della gestione economica caratteristica. Restano quindi esclusi dal calcolo il costo del personale dipendente e tutti gli altri costi relativi a fattori produttivi interni come, ad esempio, gli ammortamenti relativi ai beni strumentali al funzionamento dell’impresa.

Il valore aggiunto è quindi una grandezza economica intermedia tra i Ricavi di vendita e il Reddito operativo (Ebit) che viene prima dell’Ebitda (o Margine operativo lordo). A ricordare il senso di questo calcolo aiuta l’Imposta sul Valore Aggiunto. Quest’imposta viene versata da un soggetto fiscale come differenza tra l’Iva incassata da fatturazione attiva e l’Iva pagata sugli acquisti effettuati e relativi a fattori produttivi esterni all’azienda. Il versamento di quote di Iva elevate è ovviamente un indicatore positivo, ancorché finanziariamente possa creare temporanee tensioni, a causa di ritardi nei pagamenti da parte dei clienti. In proposito si può anche sottolineare che in presenza di fasi di crescita rapida un’impresa ad alto valore aggiunto, potendo contare si un minor contributo proporzionale dei fornitori, avrà un drenaggio di liquidità superiore. La notorietà di cui in passato questa grandezza ha goduto è dovuta ad una pluralità di motivi. Giorgio Brunetti li sintetizza così: “il valore aggiunto viene, in genere, assunto come indicatore della efficienza nell’impiego della risorsa capitale e della risorsa valore, viene impiegato anche come parametro della dimensione aziendale e come obiettivo nel governo dell’azienda, poiché risulta essere coerente con le attese dei partecipanti e con il potenziamento” dell’impresa. Ma forse c’è qualcosa in più.

Ciò premesso l’idea di riscoprire il Valore aggiunto e di riflettere su questa grandezza viene, in particolare, dai contributi di tre studiosi Charles Hofer, Vittorio Coda e Sandro Frova. Il primo nel 1983 aveva proposto una misura, il Rova (Return on value added), un po’ trascurata dalla letteratura. Questo studioso sosteneva che il Rova poteva essere un indicatore delle performance di un’impresa in chiave strategica in quanto valida per valutare tali performance indipendentemente dal settore di appartenenza di un’impresa. Per calcolarlo Hofer suggeriva di rapportare il valore aggiunto al reddito netto (Rova = Valore aggiunto/Reddito netto). Quanto è più alto questo indicatore in percentuale, tanto più l’impresa sta valorizzando al meglio tutte le risorse utilizzate per mettere a punto la sua value proposition. Inoltre il Rova nel tempo, se la strategia aziendale è coerente e capace di rispondere ai cambiamenti ambientali tende ad essere stabile o addirittura a migliorare. Ma aldilà dell’interesse di questo indice, Hofer ha evidenziato quanto avere degli indicatori centrati sul valore aggiunto sia di assoluto rilievo anche perché: “Il valore aggiunto è la misura più diretta disponibile relativa alla contribuzione che un organizzazione dà alla società.” Vittorio Coda mi aveva indicato questa misura per l’impostazione di uno studio destinato a valutare a livello aziendale la coerenza di indirizzo strategico nel tempo. Sandro Frova nei suoi lavori ha invece spesso utilizzato questa grandezza economica per svolgere alcune argomentazioni di rilievo:

a. la tendenza ad una più o meno spinta integrazione verticale derivante dalla dimensione del valore aggiunto può emergere nei settori industriali (S. Frova, 1980);

b. una lettura in chiave economica della catena del valore di M.Porter per i vari comparti che caratterizzano l’industria delle telecomunicazioni in Italia (S.Frova, 1998).

Ciò che i tre studiosi solo velatamente hanno lasciato intuire è quest’affermazione forte: il valore aggiunto è tanto maggiore quanta più “intelligenza” viene messa in quello che viene offerto sul mercato, nel tentativo di rispondere alle esigenze del cliente. Pertanto il valore aggiunto in percentuale sui ricavi è l’espressione di quanto il cliente ha apprezzato i contenuti in termini di unicità, di originalità e utilità dell’offerta che gli è stata sottoposta. Si può percepire che se è l’intelligenza che si riflette nel valore aggiunto, in quei business dove il vantaggio competitivo è legato alla capacità di un’impresa di attivare soluzioni che altri non sono stati capaci o di individuare o di attivare, ne consegue che: o ti distingui per la tua intelligenza o ti estingui. Il valore aggiunto offre una misura di quanto si è capaci nel tempo di avere degli elementi distintivi.

L’“intelligenza” racchiusa in un prodotto/servizio è infatti legata alle varie conoscenze che un’impresa possiede e che la portano a proporre qualcosa di nuovo, talvolta arricchendo questa offerta anche con altri aspetti, sempre espressione di atti di intelligenza: l’aver predisposto soluzioni organizzative particolari con le quali si realizzano questi prodotti/servizi, avere relazioni più o meno dirette con i clienti finali (si pensi alle imprese che hanno saputo valorizzare la loro presenza in Internet), la creazione di un network di fornitori, disegnato apposta per soddisfare con tempestività le richieste sempre più ampie e differenziate dei clienti.

In base a quanto, in questo momento di dibattito intenso, su quanto ma soprattutto su dove ritornare a crescere alcune indicazioni arrivano in automatico. È opportuno ribadire e sottolineare che per le imprese italiane, nell’attuale contesto ipercompetitivo, un recupero di produttività è una condizione necessaria, ma di per sé non sufficiente a consentire un efficace recupero di competitività a livello internazionale. E se non è così addio crescita. È quindi necessario un recupero di contenuto intellettuale in quello che si fa. Deve tornare ad aumentare il valore aggiunto dell’offerta delle nostre imprese. Questo per due precisi motivi, le imprese italiane:

a) operano in un Paese che per le materie prime dipende largamente dall’Estero, così in termini di creazione di valore aggiunto si parte svantaggiati,

b) devono sopportare un costo medio orario del lavoro tendenzialmente più alto, così ci viene detto, rispetto a quello di altri Paesi industrializzati.

In questa situazione esiste un’unica via di salvezza: arricchire di idee e di contenuti più o meno tangibili quello che si offre ai clienti. Se quello che si propone e che arricchisce il prodotto, interessa al cliente, questo si tradurrà, attraverso una sua valorizzazione nei prezzi, in un maggior valore aggiunto. Ed è qui che c’è un enorme possibilità di recupero per la nostra economia.

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