Settembre, siamo in periodo di esami di recupero e qualche domanda è opportuno che ce la si ponga anche noi: quale spessore “scientifico” hanno le teorie di management? Quali sono le conoscenze minime per svolgere un mestiere-professione di assoluta criticità sociale (rischia l’imprenditore, ma rischiano anche tutti quelli che credono in lui e nel suo management) anche quando le imprese sono piccole? Per gestire (fare management) dovrebbero esserci degli albi professionali nei quali si viene iscritti solo se si dimostra di possedere le conoscenze riconosciute indispensabili (si pensava ad una sorta di patentino di guida)?

Per tutto il XX secolo a queste domande si sono date delle risposte e sono state date da parte delle Business School, soprattutto negli Stati Uniti, arrivando a progettare corsi Master della durata spesso superiore all’anno. Ma questa iniziale impostazione era molto tecnica e poco attenta alle persone e alle determinanti dei loro comportamenti. D’altra parte, in materia se ne sapeva ancora poco. Poi la Scuola delle Relazioni umane con Douglas McGregor e il suo: “The Human Side of the firm” iniziò a produrre materiale utile a modificare visioni troppo tecnicistiche. Ci fu anche un articolo, ad oggi insuperato, di Robert Katz (The Amos Tuck School, Dartmounth College) che definiva già nel 1955 le 3 capacità fondamentali e migliorabili per una persona ai vertici di una realtà aziendale complessa e, per di più magari, di grandi dimensioni:

-Technical skill, conoscenze di base sia di management sia di uno specifico settore;

-Human skill, capacità di lavorare in team e di guidare team;

-Conceptual skill, capacità di concettualizzazione, cioè capacità di essere selettivi e “riportare a sistema” frammenti di conoscenze.

Da questo articolo, ad esempio, presero spunto alcune modifiche nei contenuti dei Master della Scuola di Direzione aziendale, volute dall’allora coordinatore della Divisione Franco Amigoni. Poi alla fine è arrivato, nel 1988, Henry Mintzberg, che, con il suo libro “Managers not MBAs”, criticamente sottolineò quanto ci si fosse concentrati sulle hard skill ed in particolare sul processo decisionale, dimenticando che fare management non significa solo prendere decisioni e che ci sono le soft skill. Così una recente ricerca, pubblicata sulle pagine di Harvard Business Review (Luglio 2022) confermerebbe che le scelte operate sul campo (on the field) dalle imprese in relazione al personale chiamato a far parte del board o di altri organi di vertice oggi tendono a privilegiare le capacità relazionali delle persone. Resistono quelle tecnico-specialistiche, mentre sono in netto declino le pure competenze economico-finanziarie. E questo per tutti, oltre che per i Ceo anche per i Cfo.

Si legge nei passaggi di sintesi del lavoro di Raffaella Sadun, Joseph Fuller, Stephen Hansen, PJ Neal (Hbr, Italia, Luglio-Agosto; Speciale Scegliere il nuovo Ceo):

“Il nostro studio ha prodotto numerose indicazioni. La principale è questa: negli ultimi due decenni le aziende hanno ridefinito significativamente i ruoli di vertice. Le capacità tradizionali citate in precedenza – in primis la gestione di risorse finanziarie e operative – rimangono preziose. Ma quando cercano dei top manager, in particolare nuovi CEO, oggi le imprese attribuiscono meno importanza di prima a quelle capacità, e danno invece la priorità assoluta a un altro requisito: un forte orientamento alle abilità sociali. (Si veda il box: “Cercansi CEO che sappiano trattare con le persone”).

Quando parliamo di “abilità sociali” facciamo riferimento a certe abilità specifiche, tra cui un elevato livello di autoconsapevolezza, la capacità di ascoltare e di comunicare bene, la disponibilità a lavorare con diversi tipi di persone e di gruppi, e quella che gli psicologi chiamano “teoria della mente” – ossia la capacità di intuire ciò che pensano e provano gli altri. L’ampiezza del cambiamento intervenuto in questi ultimi anni in direzione delle predette capacità è particolarmente significativa per i CEO, ma molto pronunciata anche per gli altri quattro ruoli di vertice che abbiamo studiato”.

D’altra parte, si è sempre stati convinti di quanto fossero spregiudicate ed insidiose le pratiche di finanza degli anni Ottanta, non a caso da qualcuno qualificate come finanza d’assalto. E nel nostro Paese qual è la situazione? Ho avuto modo di rendermene conto avendo lavorato dal 1978 ad oggi in alcuni osservatori privilegiati rappresentati dalle principali Business School Italiane (tra queste Sda- Bocconi, Mip Poli Milano, Studio Ambrosetti, Istud). Ne emerge, al netto di alcune ricerche condotte dal Crora (“Centro di Ricerca sull’organizzazione aziendale” – Università Bocconi), una scarsa diffusione in Italia delle pratiche manageriali. Il Crora, centro di ricerca diretto per molti anni da Andrea Rugiadini, ha in modo chiaro evidenziato che nelle aziende italiane sono da sempre, in larga misura, prevalse le capacità relazionali.

I risultati della ricerca pubblicata nel 1985 erano chiari: emergeva osservando il quadrante 4 in alto nella figura, che nei 3 periodi di osservazione dal 1978 al 1985, solo le pratiche di controllo sembravano aver avuto un’efficace diffusione, unitamente ad alcune prassi organizzative. Molto carenti erano le applicazioni dei tecnicismi del planning e tutte le pratiche legate alla valutazione delle performance e delle persone. Negli anni ’90 e in quelli successivi la formazione manageriale nel nostro Paese non ha avuto gli sviluppi auspicabili. Sono mancate anche delle Ricerche puntuali su questo argomento, tant’è che le uniche tracce utili in proposito sono quelle lasciate da Rosamaria Sarno nei suoi periodici Rapporti “La formazione manageriale nel…” (pubblicati sempre su Harvard Business Review Italia – vari anni).

Resta il fatto che, pur mancando dati statistici, le caratteristiche positive dei nostri manager sembrerebbero essere creatività e flessibilità più che tecniche e metodologie. Questa conclusione positiva forse è un po’ azzardata, ma se si osservano i risultati di molte imprese italiane confrontati con quelli di competitor esteri, a elevata trazione manageriale, potremmo anche convincerci della loro non proprio del tutto infondata correttezza. Certo resta il rammarico di non poter andare oltre affermando che, se avessimo “studiato” anche un po’ da manager avremmo saputo fare con le nostre imprese ancor meglio. Così scopriamo che oggi abbiamo poi ottenuto risultati ineguagliabili sotto i vari profili: eco-fin, sociale e anche ambientale. Sono gli ambienti che ci circondano a costringerci a far attenzione a tutte queste dimensioni. Forse, anche per ignoranza (cioè scarsa conoscenza), al di là della Modigliani-Miller (indebitarsi conviene, basta che il Roi sia maggiore del costo dei mezzi di terzi), di Finanza ne abbiamo fatta poca e quei pochi capitani di industria italiani che hanno tentato di praticarla, spesso non hanno concluso con successo le loro attività, anzi.

I nuovi profili oggi richiesti richiederanno, oltre al Roi e ad altri modelli di gestione, nuove sensibilità e nuove conoscenze. Non tutti ne sono in possesso, ma potrebbe tornare ancora utile, ancorché non essere assolutamente sufficiente, l’arte di sapersela cavare. In fondo nel periodo 1950-2000 per le imprese italiane è stato quasi così. Un film del 1990, molto bello, diretto da Lina Wertmuller, con Paolo Villaggio come protagonista e con un libro di successo alle spalle, titolava: “Io speriamo che me la cavo”. Per il management italiano sembrerebbe proprio il caso di riproporne il senso.

Simpaticamente, le persone che fanno parte dei vertici aziendali vengono oggi anche etichettate dalla letteratura come membri della “C-suite”. Questo è l’insieme dei Chief delle varie aree gestionali dalla finanza alle Risorse umane e all’information technology, il Team che lavora a stretto contatto con il Chief executive officer (Ceo). Inoltre da questa Ricerca si ha la conferma che per molti, anche se non proprio per tutti, sembrerebbe essere finita l’”era” in cui l’affermazione “business is business”, legittimava qualsiasi comportamento.

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