Sin dai tempi degli Hidden Champions, Hermann Simon ci ha sempre abituato a contributi che costringono a pensare. Anche questo libro scritto nell’edizione italiana con F. Fiorese, proprio per il titolo secco e essenziale cattura: Profitto. In realtà il titolo dell’edizione originale è: True Profit!: No Company Ever Went Broke Turning a Profit. Ma se nessuna azienda è mai fallita realizzando un risultato economico positivo (profitto), ciò non toglie che sia l’utilizzo che si fa del “profitto” l’elemento strategico chiave. C’è un’etica del profitto. Questa è data dal come lo si fa e dal cosa se ne fa. Così nel libro viene citata con sfumature questa volta negative la General Electric, guidata dal mitico Jack Welch. Quest’azienda avendo al centro la creazione di valore economico per gli azionisti (che d’altra parte andava di moda in quegli anni) ha depauperato la sua capitalizzazione di borsa per non aver guardato all’aumento del valore economico dell’azienda nel tempo, al bene dell’azienda dato dal suo relazionarsi con le varie categorie di Stakeholder. Alla luce di questa demitizzazione di Jack Welch si intuisce l’impostazione del libro. Profitto sì! Ma con una elevata attenzione all’evoluzione nel tempo dell’azienda, alle azioni sociali nei confronti di tutti gli stakeholder e all’impatto sull’ambiente.
Questo sarà più facile in tutti quei Paesi meno orientati al profitto come risultano essere, da una ricerca condotta dallo stesso Hermann Simon, Spagna, Cina e Giappone. Hanno invece un maggior orientamento al profitto Francia e Svizzera; ed in questa classifica l’Italia è quinta, prima degli Stati Uniti, posizione che ci siamo conquistati grazie alle nostre numerose imprese Hidden Champion. Le singole imprese nel contesto economico pesano poco, ma nel loro insieme fanno i numeri di un’Italia tra i primi Paesi industriali (settima nel mondo e seconda in Europa – Vedi grafico Centro Studi Confindustria).
Resta il fatto che il “profitto” come minimo è un mezzo indispensabile per poter mantenere o aumentare la propria capacità competitiva. Solo con risultati economici positivi (Figura 3) un’impresa può in larga parte “autofinanziare” i propri investimenti senza dover aumentare l’indebitamento. I mezzi di terzi sono equilibrati solo se risultano essere al massimo 2 volte rispetto ai mezzi propri (capitale sociale + profitti che hanno alimentato le riserve). Il mantenimento di questo equilibrio finanziario è la principale garanzia per mantenere un’autonomia gestionale elevata, per non avere rapporti condizionati con nessuno degli stakeholder e per godere di una reputazione elevata.
Figura 3. La redditività come fonte di risorse finanziarie, disponibili per effettuare gli investimenti necessari a mantenere nel tempo la capacità competitiva di un’impresa
Se con autonomia e lucidità si riescono ad effettuare gli opportuni investimenti in asset tangibili ed intangibili, si porranno le basi per consolidare o addirittura migliorare la capacità competitiva dell’impresa e innescare un processo virtuoso di generazione di redditività positiva. È anche per questa centralità riconosciuta alla redditività che risultano interessanti le pagine dedicate dall’autore alle cause che si celano dietro le diverse redditività delle singole imprese, molto prossime nei risultati a quelle da noi svolte (si veda A. Bubbio, Le cinque forze che influenzano la redditività):
-Avere degli obiettivi sbagliati o una strategia non chiara,
-Le caratteristiche del settore in cui si opera,
-La mancanza di specializzazione,
-Condizioni di contesto geo-politico – fiscale – finanziario in cui l’impresa opera
Così pure nella loro semplicità metodologica risultano interessanti le possibili “terapie” indicate da Simon laddove il profitto aziendale debba essere migliorato. I tre Driver del profitto non possono che essere prezzo, volume delle vendite e costo. Ma la loro manovra deve essere strategica: ecco che ad esempio non si capisce perché si debbano fare prezzi “marxisti” quando c’è una psicologia del prezzo che suggerisce nel prezzo alto un indicatore di qualità, o crea un effetto snob (l’utilità percepita del prodotto aumenta all’aumentare del prezzo, anche perché segnala uno status sociale più elevato); ci sono inoltre strategie di premium price.
Per i volumi di vendita Simon ribadisce due concetti che dovrebbero aiutare a far pensare. Il primo è che volumi più alti hanno senso solo se accompagnati da utili più elevati. Questo significa che deve aumentare il margine di contribuzione complessivo e devono restare fermi i costi fissi. Diversamente si rischiano clamorosi e inaspettati peggioramenti dell’utile percentuale sui ricavi. Il secondo concetto è il seguente: “quando un calo del volume delle vendite si accompagna a un incremento degli utili, l’azienda dovrebbe accogliere positivamente questa dinamica” (Simon,pag. 209). Comunque anche la manovra dei volumi deve essere spesso strategica. E alle alternative internazionalizzarsi piuttosto che diversificare, si può passare dall’offerta di prodotti all’offerta di sistemi, con un arricchimento (anche economico) legato a servizi che vanno dal “make to measure” ad una fornitura “chiavi in mano”.
Rimane l’ultimo driver: il costo, variabile con una valenza elevata non solo sul profitto, ma anche sulla competitività e la capacità di sopravvivenza di un’azienda. La sua manovra, secondo Simon, muove dalla comprensione dell’elasticità del profitto rispetto al costo. Ma non può poi prescindere da una distinzione tra costi variabili e costi fissi per i diversi impatti che su queste due categorie hanno i volumi. E da ultimo non può trascurare un’analisi secondo le logiche della gestione dei costi (cost management) che suggeriscono di osservare i costi in base alle attività/processi per i quali sono sostenuti: attività di supporto e attività primarie nel confezionare l’offerta (il prodotto/servizio). Il libro ha un ultimo pregio da sottolineare: nelle esemplificazioni aiuta a intercettare e approfondire la realtà di imprese di tedesche, accanto alle tradizionali realtà americane e a quelle europee. L’universo che aveva incuriosito e stupito nel 1996 i lettori della prima edizione di Hidden Champions (HBS Press, Boston 1996).
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