Sono in molti all’estero, tra i manager e gli studiosi, a chiedersi quale sia il segreto del successo di molte imprese italiane. Quelle che ci hanno accompagnato in una crescita industriale che nel secondo dopoguerra ha portato ad utilizzare il “miracolo industriale”. I nomi di allora, Olivetti, Pirelli, Eni sono molto conosciuti, ma poi, nonostante tutto, si sono eclissati. Il caso Olivetti lo abbiamo ormai richiamato anche in Manage-Mind. Poco si è invece detto della Pirelli e dei vertici della famiglia in quegli anni. Pirelli era nota per la sua attenzione alle persone: corsi di formazione su tre livelli: entry e poi sviluppo della capacità gestionali, per concludere con sviluppo delle capacità direzionali. In Pirelli si faceva carriera solo lungo le linee gerarchiche interne, si disponeva di una serie di meccanismi operativi funzionanti come quello della pianificazione strategica e abbinata ad un collegato piano operativo il budget e il controllo di gestione. La Direzione del personale ha visto alternarsi persone qualificate, primo fra tutti Gavino Manca. A Milano, per il Politecnico e per la Sda Bocconi era la nostra General Electric, fonte di esemplificazioni sulle più varie pratiche di management, fuori e dentro gli stabilimenti. Un case study che riprenderemo nella nostra rubrica Provaci ancora Sam.
Il libro “Il segreto italiano” a cura di Vittorio Coda offre attraverso l’analisi di alcuni casi quelle che sembrerebbero essere le traiettorie che hanno caratterizzato lo sviluppo di alcune realtà di imprese italiane di cui non possiamo che essere orgogliosi. In tutti i casi presentati nel libro emerge un tema che cattura un sempre maggior e diffuso interesse: l’impresa vista come istituzione mossa dallo scopo (purpose) di realizzare quel “bene comune”.
Le nostre imprese sono “belle” e potenzialmente anche grandi. Ma non sempre sono state capaci di dare continuità nel tempo alla loro crescita. E si teme che ciò sia successo poiché si sono utilizzate poco o male le pratiche manageriali suggerite dalla letteratura di management. Così, il titolo del film di Sorrentino tratteggia molto bene gli elementi caratteristici di alcune imprese del nostro Paese. Nascono da idee imprenditoriali valide e si sviluppano talvolta in modo rapido ed impetuoso, ma poi, come nel film ricordato, si inebriano del successo (è molto italico come atteggiamento) e così si offuscano e perdono di incisività sui mercati. Non sempre sono capaci di valorizzarle appieno e alla fine le perdiamo, spesso acquisite in tutto o in parte da imprese di altri Paesi, talvolta vanno a finire i loro giorni nelle partecipazioni statali. Queste ultime, come si è avuto modo di sottolineare, non sempre entrano in crisi, anzi. In questo facilitate dal business, ma anche dalle competenze esistenti in queste imprese. Basti qui pensare a Telespazio e alle sue abilità nella gestione satellitare o anche ad Eni nel settore chimico ed Enel nel campo energetico, dove ci si prepara dato che le barriere protettive verranno meno nei prossimi anni.
Certo quando si pensa a. ciò che abbiamo lasciato sul campo nell’area delle imprese private mi spiace ricordare i nomi di Perugina, della quale è riconosciuta anche da competitor svizzeri (Lindt) la qualità del cioccolato, o sempre nell’area umbra, Ellesse, abbigliamento sportivo. Per fortuna Barilla dopo una parentesi americana è tornata italiana, ma nel mondo del fashion alto di gamma i francesi hanno fatto molte operazioni di acquisizioni.
• LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) ha acquistato
-Bulgari (gioielleria e orologeria) – Acquisita nel 2011.
-Loro Piana (cashmere e tessuti pregiati) – 80% acquisito nel 2013.
-Fendi (moda e pelletteria) – Controllata al 100% da LVMH dal 2001.
-Pucci – Completamente acquisita nel 2021.
-Acqua di Parma (profumi e lifestyle) – Acquistata negli anni 2000.
• Kering (già proprietario di Gucci, Saint Laurent, Ballonchiava) ha aumentato la sua presenza con:
-Gucci – Acquisizione completa nel 2004 dopo una lunga battaglia finanziaria.
-Bottega Veneta – Acquistata nel 2001.
-Brioni – Acquisita nel 2011.
-Pomellato (gioielli) – Acquistata nel 2013.
Ma anche aziende che alle origini furono molto valide, come Olivetti, Pirelli e nel suo piccolo anche la Fiat si sono poi perse e oggi sono quasi scomparse dallo scenario economico internazionale o hanno resistito a stento, e comunque ancora grazie all’intervento estero come per Fita con la creazione del gruppo Stellantis. Ma proprio il caso Fiat rappresenta un utile esempio di come un intervento manageriale, quello di Marchionne, possa sortire a qualche risultato positivo. Di certo la sua immatura scomparsa ha interrotto un percorso che aveva appena concluso, un quasi soddisfacente riequilibrio finanziario. C’era ancora molto da fare e l’AD che ha sostituito Marchionne è stato quello che ha bloccato le strategie delineate per il percorso di risanamento. Per cui Stellantis languisce, come peraltro oggi languiscono diverse imprese dell’automotive europeo, sotto l’attacco dell’elettrico e delle imprese coreane e cinesi.
Ma che dire dei settori più legati alla ricerca che in Italia sembravano molto promettenti e mi riferisco, ad esempio, al settore farmaceutico dove l’Istituto Donegani, guidato dal prof. Colombo, coordinava le azioni di Carlo Erba e Farmitalia. Oggi qualcosa nel settore rimane, ma non è nella parte avanzata dei territori di ricerca. Belle aziende, ma perfetta espressione del “modello di impresa italiano: conduzione famigliare, medie dimensioni, molto mercato domestico. Mi riferisco ad Angelini Farmaceutica, Dompé e Chiesi. Comunque noi siam fatti così. Per cui lasciamo che ricercatori come Faggin (Olivetti) vadano negli Usa e diventino una delle colonne portanti di Intel microprocessori, e della Silicon Valley. Insomma più che mai possiamo parlare de “La grande bellezza”, dove però manca ancora qualcosa per una sua piena valorizzazione. C’è, ma ogni tanto ci dimentichiamo di averla.
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