Edgar Schein ci ricorda quello che spesso dimentichiamo: quello che in un dialogo di solito ascoltiamo dipende, in larga parte, da quello che domandiamo, dalla nostra capacità di porre domande. L’idea non è nuova, soprattutto quando sono chiamato a svolgere alcune attività legate al mio ruolo di ricercatore universitario. Così un po’ di spazio l’abbiamo già dato a questo tema nel post L’arte di pensare.

Cogliamo lo spunto dalla nuova edizione ampliata ed aggiornata (Guerini Next, Milano 2024) per ritornare su questa arte che è apparentemente ancillare rispetto ad altre arti manageriali, ma è non meno importante. Anche il sottotitolo infatti suona così: Quando ascoltare è meglio che parlare. Quante volte sarebbe meglio tacere e invece ci si sente in dovere di parlare. È nella nostra cultura. Peter Schein è il coautore di questo libro, di Edgar Schein, che mi piace definire il grande vecchio psicologo dell’Mit, per la numerosità e il rilievo dei suoi contributi. È mancato nel 2023 e ci mancherà. Lo ritroverete nella nostra sezione Beautiful Mind.

Il nostro stesso apprendimento spesso nasce dalle risposte alle domande che noi ci poniamo. E sempre dalle domande dipende la nostra capacità di valorizzare l’Artificial Intelligence di tipo generativo. Così, chi ha la fortuna di riflettere sulle occasioni di apprendimento sa quanto queste si amplifichino attraverso le domande che ci si pone o che si pongono ad altri. Certo, come ci suggeriscono Edgar e Peter Schein, per migliorare l’efficacia della nostra capacità di porre domande, è opportuno tenere presenti alcuni accorgimenti:

-La discussione/colloquio va in qualche modo preparata, non costruendo gabbie rigide ma avendo in mente alcune domande generali da porre;

-L’atteggiamento di chi pone domande è opportuno che sia improntato all’umile ricerca di informazioni e non a reazioni, talvolta anche tranchant sino a divenire offensive per il nostro interlocutore, come succede quando ci sentiamo dire cose che non vorremmo sentirci dire.

In particolare nei colloqui o nelle discussioni con altre persone, qualora prevalga un clima caratterizzato dall’umile ricerca delle informazioni, questa ha una serie di provate ricadute positive:

-può integrare quelli che sono normali momenti competitivi tra le persone, con la cooperazione e un costruttivo lavoro,

-mira a creare un clima di trasparenza e fiducia,

-è un mezzo efficace per entrare in sintonia con un’altra persona e costruire una relazione stimolante.

In particolare ai due autori sembra opportuno, quando si lavori in azienda e si desideri porre domande in modo efficace, domandarsi:

Fai domande a 360 gradi?

Fai domande ai tuoi collaboratori; investi e ascolti le persone che lavorano per te o ti limiti a dire cosa devono fare?

Fai domande ai colleghi?

Pari livello (competitor) e condividi con loro le tue informazioni?

Fai domande ai tuoi superiori?

Nel tuo ambiente di lavoro è sicuro porre domande per avere più informazioni e direttive da coloro per cui lavori? (op.cit. pag.23)

Resta il fatto che centrale per un’efficacia del processo del porre domande è l’umile ricerca di informazioni. I due studiosi la definiscono così (op.cit.pag.15):

Un’arte

L’umile ricerca di informazioni è la sottile arte di incoraggiare qualcuno a dire di più, di fare domande per le quali non sappiamo già la risposta, di costruire una relazione basta sulla curiosità e sull’interesse per un’altra persona.

Un atteggiamento

L’umile ricerca di informazioni non si riduce semplicemente alle domande; è un atteggiamento complessivo che include un ascolto più profondo finalizzato a capire come gli altri reagiscono alla nostra ricerca di informazioni, … a rivelare più di noi stessi nel processo di costruzione delle relazioni.

La posizione di ascolto e la disponibilità all’ascolto di chi pone le domande sono fondamentali nel caratterizzare quell’aggettivo qualificativo umile. Sempre nel condizionare e caratterizzare l’umile ricerca giocano dei fattori culturali, legati anche alla cultura del Paese nel quale si opera, nonché alcune caratteristiche personali, del tipo essere più o meno propensi alla riflessione. In base ad essi si possono contrapporre delle situazioni che portano (Cap.4 – La cultura del fare e del dire, pp.74-91):

a. ad essere più propensi a dire-fare piuttosto che a indagare,

b. dal transazionale alla rilevanza delle persone per affrontare collettivamente un processo complesso,

c. dal concentrarsi sul contenuto (cosa è accaduto) al contesto (cosa sta accadendo intorno a noi),

d. nelle varie situazioni dall’interpretazione e dall’essere influenzati a passare all’ascolto ed all’apprendere.

Resta poi ancora un ultimo suggerimento utile, spesso sottovalutato; si tratta di iniziare e tenere un diario dell’apprendimento, nel quale continuare ad annotare tutto ciò che nei vari incontri, così come dalla lettura dei capitoli di questo libro, si percepisse come utile nell’indagare un aspetto o un problema gestionale. Questo esalta l’utilizzo di uno stile di apprendimento definito come stile visivo verbale, con il quale si impara prendendo appunti od elaborando testi o schemi per memorizzare un argomento.

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