Innovare non è solo un problema di “idee” ma di metodo. Così si scopre, in modo sorprendente, perché noi italiani non siamo degli innovatori ma degli inventori. Quest’affermazione negativa ha in sé un potenziale positivo enorme: e se diventassimo un po’ più innovatori?
Per diventare “innovatori” dobbiamo imparare a svolgere il processo di progettazione di un qualsiasi prodotto-servizio con le logiche circolari suggerite da approcci che oggi sono molto di moda come il design thinking o proposte che vengono da studiosi italiani che propongono l’innovation by design.
Questi due approcci sono risultati per me particolarmente convincenti poiché ho scoperto che, quando ho affrontato progetti innovativi, ho cercato di applicare ma non ho razionalizzato. In questa direzione ricordo alcuni progetti affrontati e gestiti in Scuola di direzione Aziendale (tra i quali il General Management Program – GMP), le esperienze in alcune società di ingegneria quando il Project management muoveva i primi passi (1985-1990). Ma due realtà aziendali hanno costituito insostituibili stimoli verso un approccio ad alta intensità progettuale: a) Indena spa, impresa impegnata nella ricerca e valorizzazione di principi attivi dalle piante (con applicazioni nel farma e nel healthfood) per la loro richiesta di una valutazione economica delle ingenti risorse investite nell’area R&S e b) Telespazio, società dedicata alla valorizzazione dei sistemi satellitari, dove per i progetti caratterizzati da committenti-clienti esterni si era utilizzato uno schema come il seguente:
Questi casi mi hanno insegnato che “intangibile” non significa irrazionale, ma significa qualcosa che avendo bassa materialità sembrerebbe più difficile da gestire. È invece solo necessario un approccio consapevole dei contenuti di immaterialità. Così, in altre esperienze consulenziali, avvicinandomi ad analizzare il contributo di grandi architetti, di agenzie pubblicitarie e di più o meno noti designer (interior o exterior), ho scoperto ulteriormente il ruolo contributivo dell’approccio progettuale circolare. Quell’approccio che è stato portato alla conoscenza dei più dalla Ideo, società di Tim Brown, dai suoi articoli (HBR) e dal suo libro Change By Design (Harper Collins, 2009). E che ha avuto ulteriori affermazioni grazie anche ai libri di Roger Martin The Design of Business (Harvard Business Press, Boston 2009). In proposito mi vengono in mente alcuni libri di Bruno Munari o di Renzo Piano, dove viene anche da loro proposto un “metodo” per fare progettazione innovativa: “il metodo progettuale – scrive Bruno Munari- non è altro che una serie di operazioni necessarie, disposte in un ordine logico dettato dall’esperienza.
Anche nel campo del design non è bene progettare senza metodo, pensare in modo artistico cercando subito un’idea senza aver fatto prima una ricerca per documentarsi su ciò che è già stato fatto di simile a quello che si deve progettare; senza sapere con quali materiali creare la “cosa”, senza precisarne la esatta funzione” (Da Cosa nasce cosa, La Terza, 1981, pg.16).
Renzo Piano invece nel suo “Cahier de travail” (traduzione francese del suo libro) mette l’enfasi sulla rilevanza di creare con continuità nel tempo un sistema di conoscenze/esperienze (Knowledge systems), un archivio di idee mai sufficientemente enfatizzato nei suoi effetti sui progetti che si susseguono nel tempo e che non vogliono dimenticare quanto si è imparato dall’esperienza. Tutti questi contributi sulla rilevanza del design approach, completati da una letteratura strabiliante sull’innovazione e sulle caratteristiche dell’innovatore, che trovano in Clayton Christensen (Harvard Busienss School) una delle espressioni più autorevoli, ci consentono una prima riflessione: quest’approccio può essere applicato anche nelle aree dove sembrava contare solo la creatività: ad esempio la formulazione della strategia. In questo senso il framework proposto in Futures by design da Corà, Fazio e Collura (Guerini Next, Milano, 2023) ci sembra di grande chiarezza ed utilità.
Così quelle persone che – come ricorda Munari – di fronte al fatto di dover osservare delle regole per fare il progetto si sentono bloccate nella loro creatività” (op. cit. pag. 17) non devono vivere il metodo come una “gabbia” ma come un supporto costruttivo alle proprie attività. Addirittura, come mi è capitato in alcune esperienze professionali, il metodo può diventare un elemento migliorativo dell’efficacia con la quale si gestiscono progetti a contenuto innovativo. Così sono due fasi che nel framework proposto (vedi figura) portano al “change”, e nascono dall’area del “sense” (lettura dell’ambiente) e dall’area del “make” (proporre idee-soluzioni), guidate dallo scopo aziendale (“purpose”) e che consentono di muoversi verso i “futuri desiderabili”. Il susseguirsi di questi circuiti traccia il percorso ideale, che, anche visivamente, non è più quel tracciato lineare al quale ci eravamo abituati nel jurassico.
Insomma, non è l’improvvisazione caotica e creativa il metodo da praticare, anche perché, si è verificato, non è detto porti ad innovazioni di successo. L’innovazione è spesso il risultato di un percorso di lungo periodo, con momenti di ricerca di vario tipo, che richiede numerose risorse e che, soprattutto oggi, risulta esiziale per le imprese che operano, non dimentichiamolo mai, in un ambiente ipercompetitivo e, di più, ad ipercompetizione crescente. Certo erano belli i tempi, che purtroppo non torneranno più, quando i prodotti duravano anche più di 40 anni.
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