Sembrava non ci fosse più niente da dire ed invece la prassi unitamente ad alcune scoperte scientifiche ci ha ancora portato qualcosa di nuovo. Così. ogni tanto, il contributo di qualche studioso ci induce a riflettere su temi ormai ritenuti consolidati. Questa volta è il processo decisionale al centro delle attenzioni. Se in argomento il “maestro” è stato Herbert Simon con la sua descrizione del processo razionale e di quello a razionalità limitata, qualche primo dubbio venne nel 2001 con l’articolo di H. Mintzberg e F. Westley dal titolo emblematico Decision Making: It’s not what You Think (Sloan Management Review, Spring 2001). Non tutte le decisioni venivano prese seguendo quell’approccio.
La sequenza logica razionale del processo, caratterizzato da 4 step che con il feedback chiude in modo circolare il processo, non sempre viene seguita. In proposito a quest’approccio, che suggerisce la sequenza: Definire-Diagnosticare-Individuare alternative-Decidere e che può essere definito “Thinking first” (prima pensare) possono essere contrapposti, secondo gli autori, altri due approcci: quello del prima osservare (Figura 1) e quello del “prima fare” che si possono fra l’altro spesso osservare in quelle situazioni dove l’approccio scientifico trovi difficoltà ad essere applicato o risulti anche inopportuno/inefficace da utilizzare.
Figura 1 – Prima osservare: alla ricerca di una illuminazione
Figura 2 – Collezione di scelte che nascono dal fare
Così anche altri contributi sono stati proposti, ma in particolare è opportuno non trascurare gli ultimi e tra questi quelli offerti da Daniel Kahneman e da Roger Martin.
Il primo psicologo israeliano e docente alla prestigiosa università di Princeton riporta nel suo lavoro i risultati delle ricerche in psicologia applicati all’economia aziendale, due discipline giovani con ampi spazi di contaminazione. Così, partendo dall’intuito, che rappresenta il pensiero rapido e talvolta irrazionale, e confrontando questo con la razionalità, la logica che rappresenta il pensiero che si può definire lento, sottolinea i pregi e i difetti di entrambi. Pertanto la soluzione suggerita è quella di cercare in primo luogo di valorizzare le straordinarie opportunità che il fast thinking offre anche per l’influenza che questo pensiero esercita sui nostri comportamenti e le dinamiche di società e economia; in secondo luogo però non bisogna dimenticare lo slow thinking, più “faticoso” in termini di energie psichiche ma che può aiutare ad evitare le distorsioni che la prima tipologia può determinare. Nel suo lavoro si rintracciano suggerimenti, che partendo dalla struttura e dal funzionamento del nostro pensiero, da un lato rallentano e contrastano i meccanismi mentali veloci quando questi appaiono pericolosa fonte di errori e dall’altro sollecitano il pensiero lento che ci aiuta a ragionare.
Il libro di Roger Martin è un’ ulteriore testimonianza della finezza di approccio dell’autore così come emersa nei suoi due più importanti contributi: Playing to win e When more is not better, entrambi pubblicati per HBS Press. Il suo suggerimento, in questo terzo libro HBS, per il processo decisionale non è quello di cambiarne le classiche fasi presentate in letteratura (quelle erano 4 – Figura 3 e rimangono 4), ma di cambiare approccio alle 4 fasi: passando da un approccio convenzionale ad un Pensiero Integrativo (Integrative Thinking – nella fase inferiore della figura). Questo significa introdurre un approccio che supera le visioni di area funzionale e cerca di integrare, invece, proprio dalla contrapposizione di idee, quella vincente. È un approccio olistico che riprende per essere generato la circolarità dell’analisi dinamica dei sistemi e le fasi creative che caratterizzano il design thinking.
Figura 3 – Conventional Versus Integrative Thinking
In questo scenario non si può essere solo esterofili anche perché di recente, tra le pubblicazioni apparse in Italia, c’è un contributo di Massimo Pilati, che prosegue nel solco tracciato in passato da tre importanti studiosi italiani: Andrea Rugiadini, Sergio Sciarelli e Paola Miolo Vitali*.
I loro lavori hanno esaurientemente cercato di circoscrivere le possibili diverse tipologie di decisioni al fine di evidenziarne criticità e fabbisogni informativi. In tal senso, con le tassonomie proposte, ci aiutano ad avventurarci in questo tanto delicato quanto centrale argomento. Pilati, partendo dai “classici”, ci ricorda che il punto di avvio dell’intero processo è l’individuazione del problema. E già spesso, in questa fase, si sbaglia percezione, come ben evidenziato nel paragrafo “Pensavo fosse amore, invece era un calesse” e come viene ribadito ancor più compiutamente nei successivi paragrafi dedicati alle trappole mentali nelle quali si rischia di cadere non solo nel problem solving, ma anche nel “decision making”. Il libro è poi un tentativo riuscito di sottolineare quanto proprio questi due processi siano caratterizzati dagli individui e dal loro stile decisionale, dalla cultura del Paese dove si opera e dalla cultura organizzativa e, da ultimo, dal configurarsi di alcune soft skill. Il “Problem solving e Decision making”, richiamati anche dal titolo del libro, sono quindi due processi dove un po’ di estro armonico, così direbbero i musicisti, potrebbe essere utile. Infatti come abbiamo indicato nelle riflessioni che hanno caratterizzato “Per un management a regola d’arte”: tra il pensare e l’attuare c’è il “decidere cosa fare”.
*Andrea Rugiadini, I sistemi informativi di impresa, Giuffrè Milano, 1978; Sergio Sciarelli, Il processo decisorio nell’impresa, Cedam, Padova, 1967; Paola Miolo Vitali, Il sistema delle decisioni aziendali, Giappichelli, Torino 1993.
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