Edgar Morin nel suo “Il metodo. Ordine, disordine e organizzazione” (Feltrinelli, 1989) ammoniva: in presenza di complessità è imprescindibile “riapprendere ad apprendere” e per farlo è opportuno scoprire la nostra “Hidden valley”, la nostra valle nascosta dove tutte le acque confluiscono e possono essere accolte. Dobbiamo aprire la mente e accogliere il più possibile tutti gli stimoli esterni. È in questa “valle” che si genera apprendimento e questo è legato alla quantità e alla tipologia delle acque che vi affluiscono. Attenzione nel costruire delle dighe.

Un’altra scuola di pensiero da considerare attentamente è quella che afferma la rilevanza dei processi di apprendimento esperienziale. È la scuola di David Kolb. È questo studioso che ci ha fornito materiali su cui riflettere. In Figura 1 si può notare la circolarità di questo processo che ha inizio con un’esperienza e che viene attivato quando se si cerca di capire i “perché” di quanto sperimentato, di quanto successo (riflessione passiva). Le spiegazioni che ci si dà consentono una prima concettualizzazione, che sarà seguita da una nuova sperimentazione che ci porterà ad una nuova esperienza (attuazione), in grado di dirci se e quanto abbiamo appreso e stiamo apprendendo dalle nostre esperienze.

Figura 1 – Il processo di apprendimento esperienziale di David Kolb

Ma sempre all’Harvard Business School anche David Garvin aveva proposto un suo contributo, fra l’altro prestando particolare attenzione proprio a come le organizzazioni possono “scaricare a terra” la loro capacità di apprendere. Il suo lavoro si intitolava “Learning in Action: A Guide to Putting the Learning Organization to Work” (HBS Press, Boston 2000). Il suo pensiero era semplice: “ci sono tre modi di attivare apprendimento: intelligence gathering, experience e experimentation” e nel suo libro viene indicato come attivarli in azienda.

Questi erano gli anni dei molti contributi scientifici sull’argomento. Così all’Mit proprio in quegli anni si stava sviluppando una scuola dedicata all’apprendimento, che venne indicato come la “quinta disciplina”. Questa scuola era guidata da Peter Senge e legata al metodo dell’analisi dinamica dei sistemi, che attraverso l’individuazione delle relazioni di causa/effetto aiutava ad interpretare le relazioni tra le molteplici variabili di impresa: precisando che alcune di queste erano variabili risultato, mentre altre variabili erano determinanti (poi chiamate da qualcuno drivers). Si progredisce nell’apprendimento quanto più si riesce ad individuare le variabili determinanti. In medicina si direbbe: non bisogna osservare e lavorare solo sui sintomi, ma è individuare le cause profonde, la patologia di una qualsiasi malattia.

In questo ricco tessuto teorico il “Design thinking” (Pensiero progettuale) di Tim Brown e Dave Kelly ha trovato molti seguaci e si è affermato come possibile approccio in tutte quelle situazioni manageriali in cui è opportuno effettuare delle sperimentazioni cicliche prima di ritenere che quanto pensato sia valido. Proprio come succede a chi fa progettazione di nuovi prodotti o di nuovi processi la cui attuazione è oggetto di un progetto con tempi di esecuzione ben delineati.

Sempre in tema di apprendimento, Otto Scharmer, sempre Mit, lancia una sfida interessante: ciò che ci distingue come esseri umani è che possiamo connetterci con il futuro. Per questo propone, la sua “Teoria U. I fondamentali” (A. Guerini, Milano 2018). In base alla teoria proposta tre aspetti sono fondamentali per far sì che “individui, gruppi e organizzazioni possano percepire e attualizzare il loro miglior potenziale futuro”:

1. Comprendere, come fa un buon agricoltore, la rilevanza del “campo” in cui si semina; lo stato interiore di chi desidera imparare; il raccolto infatti non dipende solo dalle sementi utilizzate e dalle modalità della loro semina; fuor di metafora i seminatori siamo noi e il campo è il “campo sociale”;

2. La capacità di ascolto come momento fondante (“modificare il modo di ascoltare cambia la vita; ci sono quattro modi di ascoltare: a) download, ascoltare per riaffermare ciò che sappiamo; b) ascolto fattuale, lasciamo che i fatti e le informazioni ci parlino e modifichino il nostro modo di vedere i fenomeni; c) ascolto empatico, tipico di chi riesce ad aprire la mente e il cuore per entrare in sintonia con la prospettiva di un altro; d) ascolto generativo si ascolta dal campo perché si percepisce che sta nascendo qualcosa di nuovo;

3. Dopo la fase più bassa della U, dopo aver ascoltato e osservato per “ritirarsi e riflettere, per permettere al sapere interiore di emergere” “presencing” (attualizzare il futuro percepito): si tratta di mettere in atto quanto elaborato, creando dei prototipi, delle proposte non definitive che andranno “testate” ma che sono il frutto di un collegamento tra testa, cuore e mani.

Tutto ciò nella convinzione che si può compiere il viaggio proposto da Scharmer e che attraverso il suo contributo si qualifica così: “un viaggio attraverso l’abisso -il punto più basso della U- dall’attuale realtà ‘guidata’ dal passato ad un futuro emergente, ispirato da quello che è il nostro potenziale più alto”, quello che dobbiamo cercare di liberare.

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Foto di StockSnap da Pixabay