“Una parte di uomini opera senza pensare,

una parte pensa senza operare,

pochi operano dopo aver pensato”. Ugo Foscolo

“Io non posso insegnare niente a nessuno,

io posso solo farli pensare”. Socrate

Pensare: c’è chi lo fa di mestiere e chi lo fa il meno possibile, anzi lo rifugge. Credo che ad ognuno di noi vengano immediatamente in mente persone che pensano troppo e altre che pensano troppo poco. E dire che pensare ci viene presentato nei dizionari come: “esercitare l’attività del pensiero, cioè l’attività psichica per cui l’uomo acquista coscienza di sé e del mondo in cui vive” e Cartesio aveva rincarato la dose con il suo “cogito, ergo sum” (penso, dunque sono). Pensare come momento nobilitante per l’essere di un individuo. E su questo tema molti di noi, me compreso, ritengono “che il pensare sia essenzialmente una capacità naturale come il camminare o il respirare. Ora è vero che noi acquisiamo “naturalmente” la capacità di pensare, ma questa può non svilupparsi e presentarsi come una “capacità a due dita”. (Alberto Oliverio, L’arte di pensare, Rizzoli, Milano 1997, pag.43). La metafora è interessante poiché scrivendo sulla tastiera del mio PC scopro che, usando solo le due dita, faccio parte di quel popolo che in dattilografia viene qualificato dotato solo di quella limitata capacità. È il popolo dei “fai da te”, degli autodidatti. Una categoria con performance alla tastiera molto contenute.

Alla stessa qualifica sono condannati i “pensatori dilettanti”. È sempre Oliverio che ci suggerisce di riflettere in questa direzione: “Pensare non è un automatismo proprio della mente umana, ma un’arte, qualcosa che si acquisisce e che può essere potenziato: bisogna imparare a osservare, cogliere nessi logici, evitare quelle trappole che derivano dal fatto che ciò che è vicino ai sensi ci appare vicino anche alla logica mentre non è così” (op. cit, pp. 8-9). Quando “si pensa” lo si fa intorno ad un’idea o ad una situazione più o meno problematica. Già sulla base di questi brevi appunti si può subito precisare che l’arte di pensare è articolata ed è caratterizzata da alcune pratiche “artistiche” talmente importanti da essere talvolta presentate come espressioni artistiche a sé stanti: l’arte di osservare, l’arte di porre domande, nella fase di raccolta delle informazioni e di individuazione dei problemi e delle possibli situazioni che richiedono una presa di decisioni; poi, sempre pensando, ci si deve cimentare con L’arte del problem solving, e l’arte del decision making.

La fase di raccolta delle informazioni è una fase delicata dalla quale può dipendere la soluzione che si individuerà rispetto ad un problema ed ha le sue impostazioni e i suoi strumenti. Si tratta di raccogliere le informazioni rilevanti e di saperle organizzare con modalità corrette. L’efficacia di questa fase dipende da quanto si è capaci di osservare in modo asettico e distaccato la situazione, di ricercare da opportune fonti le informazioni e di porre, a sé stessi e agli altri, le domande appropriate rispetto al problema che si vuole affrontare. Inoltre, l’efficacia di questa fase di scandaglio informativo, comunque si svolga, può essere compromessa dalla nostra fretta di arrivare a “fare”. Sono così arrivato a capire come mai: data la mia tendenza a dare rapida soluzione alle situazioni problematiche, venivo frenato da mio nonno Alberto, un avvocato torinese, figura di altri tempi, che mi ammoniva con un saggio: “t’las capì trop prest” (che tradotto dal piemontese significa: hai capito troppo in fretta). La fretta di risolvere situazioni in taluni casi può portare a risultati distanti da quelli desiderati. Vi è inoltre da considerare il fatto che quando si pensa, ognuno di noi, può svolgere in modo più efficace alcune di queste diverse attività poiché ha uno dei due emisferi, il destro o il sinistro, più sviluppato dell’altro. A spingere in questa direzione sono stati gli studi sul cervello, cui hanno fatto riferimento anche alcuni studiosi di management come Henry Mintzberg.

L’arte di osservare è propria dei grandi fotografi e dei fotoreporter che riescono a “cogliere e a raccontare l’attimo” che gli altri non riescono a catturare. Quest’arte è quella che mi piace chiamare, da fotografo, la vista legata al “terzo occhio”. La capacità di cogliere osservando l’insieme quei particolari che qualificano e riescono a rappresentare la situazione e il momento in cui si fotografa e che non tutti riescono a vedere. Tutto ciò è frutto di molto esercizio e di una certa sensibilità visiva. Non nascondo che un libro interessante da leggere in quanto aiuta a capire l’importanza di osservare è “Peripheral vision” di George Day e Paul Schoemaker (Wharton School-2008), che avevo deciso di inserire nella collana di General Management da me diretta per Isedi. Gli autori, sottolineando la rilevanza di saper cogliere i segnali deboli (weak signal), suggerivano di ampliare il nostro campo di osservazione inserendo la peripheral zone. Per farlo indicavano: a) dove guardare; b) come guardare; c) come interpretare i risultati dell’osservazione. Resta la necessità di sviluppare questa nuova capacità e, dopo aver indicato come funzionano i nostri organi visivi, suggeriscono di creare a livello aziendale un “Occhio Strategico”. Ma per dare una precisa indicazione di cosa sia quest’arte di osservare, penso sia utile riprendere il testo di Letizia Sgalambro nel suo sito Professione Supporter. È un testo che Lei ha predisposto per descrivere il lavoro artistico di Vivian Maier, una grande fotografa che ha saputo “fermare” alcuni indimenticabili attimi del secolo scorso (1926- 2009): “Osservare senza giudicare, senza voler aggiungere significati, senza distorcere ciò che si osserva. Osservare per cogliere i dettagli, per riconoscere nell’altro qualcosa anche di mio, per guardarlo e poi lasciarlo andare, permettendo alla vita di continuare a scorrere. Essere presenti ma allo stesso tempo farsi da parte, testimone, applicando l’attenzione come il principale strumento. Non c’è macchina fotografica che possa far risaltare queste capacità se non le abbiamo dentro, se non le coltiviamo ogni giorno, ogni singolo momento della nostra vita. Cogliere un’immagine e saperla riraccontare, sia a noi che agli altri fa parte dell’intimità della vita. Il resto è semplicemente tecnico”.

Troppo spesso, soprattutto causa smartphone (lo strumento che ha sostituito la macchina fotografica), più che “foto” facciamo delle cartoline o riproduciamo immagini senza anima, che aiutano solo a ricordare, ma non ad emozionare. Resta il fatto che anche saper osservare è un’arte che può aiutare a cogliere informazioni utili per pensare. Sempre nella fase della raccolta delle informazioni, oltre al ruolo che può svolgere un ben organizzato Knowledge system, con le sue ricadute in termini di apprendimento organizzativo, c’è il ruolo dovuto al saper porre le domande “giuste”. Su questo tema per fortuna ci viene in aiuto Edgar Schein. Lo psicologo, docente del MIT., ha regalato di recente una serie di spunti di riflessione nel volume pubblicato da A. Guerini “L’arte di far domande” Milano, 2014. Si pensi a quanto la capacità di fare domande sia imprescindibile in alcune professioni quali quelle dei giuristi e giornalisti. Schein ne parla come di un’arte che rappresenta un’umile ricerca di informazioni. Si pongono domande poiché si pensa di poter trarre informazioni su aspetti non conosciuti. Per metterla in pratica “dovremmo fare tre cose: 1) abituarci a dire di meno; 2) imparare a domandare di più, e a farlo con umiltà; 3) diventare più bravi ad ascoltare e a riconoscere gli altri” (op. cit. pag. 20). In particolare, domandare serve, oltre che per raccogliere informazioni, per costruire una relazione. Nella nostra cultura fondata sul dire, è necessario ricordare che “dicendo” si mette l’interlocutore in inferiorità. “Domandare, viceversa, equivale a un temporaneo trasferimento di potere all’interlocutore……Implica che l’altra persona sappia qualcosa in più di noi, qualcosa che desideriamo o che abbiamo bisogno di sapere. È come attirare l’altro dentro la situazione, affidandogli il volante” (op.cit. pag.21).

Tutte queste considerazioni sulla raccolta delle informazioni sono una fase sia del problem solving sia delle attività di decisions making. Ma questi processi, secondo gli studiosi che ne hanno approfondito la possibile impostazione, sono attivati in modo costruttivo solo dopo aver portato la riflessione su:

a) L’individuazione del problema rispetto al quale cercare la soluzione o dover prendere una decisione;

b) gli obiettivi che si desidera perseguire trovando quella che diventa la soluzione prescelta.

L’arte del problem solving è una pratica tra filosofia e momenti di vita quotidiana. È il filosofo Popper che ha fatto scattare l’allerta per molti di noi: “Tutta la vita a risolvere problemi”. Se così fosse dovrebbero essere in tanti ad essere artisti. Ma non è così. Anche qui molti principianti ed improvvisatori. Anche qui talvolta ci si perde o si scivola sin dalle premesse. Purtroppo, considerazioni simili vanno fatte anche per il processo del “decision making”, quello in cui i manager con ampie responsabilità dovrebbero eccellere e quello sul quale insistono i corsi Master in Business Administration (Mba). Troppo semplicisticamente si pensa di poter o addirittura dover applicare sempre il modello razionale. Questo modello, richiamando quanto Herbert Simon proponeva, potrebbe essere articolato in alcune fasi:

a) identificazione della decisione che deve essere presa attraverso un esame dell’ambiente per la definizione delle condizioni che richiedono la decisione;

b) riflessione per individuare le possibili alternative in grado di dar seguito alla decisione,

c) raccolta delle informazioni attinenti le diverse alternative,

d) valutazione delle diverse alternative, fase nella quale si ha lo sviluppo e l’analisi dei risultati cui si pensa portino le possibili diverse alternative di azione individuate (chiamata da Simon plan formulation) in termini eco-fin e non (oggi si direbbe sociali e ambientali);

e) scelta dell’alternativa che consente di “ottimizzare” i risultati della decisione;

f) attuazione della decisione;

g) analisi e valutazione dei risultati ottenuti dando seguito alla decisione, con un feedback al decisore.

FIGURA 1 – Possibili fasi caratterizzanti il processo decisorio secondo il modello logico-razionale (si veda “The New Science of Management decision” – Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J. 1960)

E in proposito H. Simon le riconduceva a tre: le attività di raccolta delle informazioni, la capacità di individuare e definire le azioni da intraprendere (plan formulation), e le attività legate alla scelta che richiedono precise capacità valutative, che oggi più che mai, non posssono essere solo legate a valutazioni di convenienza economica. Ma questo modello, che dovrebbe aiutare ad ottimizzare i risultati viene presentato, ma spesso non viene applicato, neanche da chi lo ha studiato nelle aule delle business school per vari motivi contingenti. Le persone lo applicano con difficoltà in quanto presuppone che l’individuo, nel prendere decisioni, sia in grado di prevedere e controllare, in maniera lineare ed esaustiva, tutte le possibili variabili incidenti nel processo. Ciò nonostante, durante i corsi master e similari, si spinge il partecipante ad effettuare numerose applicazioni del modello. Gli si fa fare esercizio nel praticare questo modello logico-razionale del processo decisorio. Ma al modello e ad una sua razionale applicazione manca qualcosa. Così, come sempre Simon ci evidenzia, molto spesso applichiamo un modello a “razionalità limitata” (Bounded rationality). Questo significa che si semplificano alcune fasi del processo e fra queste quella di individuazione delle diverse alternative, poiché la razionalità di un individuo è limitata da vari fattori: dalle sua capacità contenuta di raccogliere ed elaborare informazioni (oggi i Big data e i Data analitycs stanno aprendo nuove potenzialità), dai limiti cognitivi della sua mente, dalla quantità finita di tempo di cui dispone per prendere una decisione. Anche riflettendo su alcune nostre esperienze, ad esempio, ci ritroviamo talvolta a decidere avendo escluso un numero più o meno elevato di alternative in quanto in base ad una serie di parametri, magari non esplicitati, ci sembrano poco funzionali nella composizione della decisione. Un semplice esempio può aiutare a cogliere questo aspetto limitante. Se si deve decidere come organizzare un viaggio di lavoro da Milano a Roma e si deve decidere con che mezzi andarci le alternative che solitamente si considerano sono: treno, aereo, o auto. Non si considera di andarci in elicottero (salvo taluni casi), o in bicicletta o a cavallo o a, anche a piedi (anche qui con eccezioni come la marcia del’22). Queste ultime quattro alternative non solo non vengono citate, ma neanche mentalmente considerate. Questo poiché la decisione aveva determinate finalità (andare Roma e tornare in giornata) ed altri parametri (in termini di tempi e costi), in base ai quali si escludono mentalmente tutte le possibili alternative che dovrebbero essere invece considerate applicando il modello razionale nella sua impostazione logica.

Ma in quegli anni Simon, insieme a James March, aveva iniziato anche a proporre una tassonomia per le decisioni che rendeva più o meno rilevante l’applicazione di questo modello: programmed or non programmed decision. Le prime sono tipicamente ripetitive e di routine. Pertanto possono essere gestite definendo procedure, che basta applicare ogni volta che se ne presenta la necessità. Tra le tecniche che si possono utilizzare quelle della Ricerca Operativa, con il ricorso anche a modelli di simulazione. Le seconde sono invece nuove, non strutturate ed occasionali, come lo sono alcune decisioni di politica aziendale e di strategia. Per queste decisioni esperienza e addestramento del decisore sono rilevanti e le tecniche di risoluzione dei problemi cui si ricorre sono euristiche, cioè si è in presenza di informazioni incomplete o di una complessità decisionale elevata. Vengono messi a punto, come supporto a queste decisioni, che sono spesso decisioni di investimento, strumenti come il “decision tree” (albero delle decisioni). In proposito John Magee su Hbr (July 1964) fu tra i primi autori a presentarne possibili applicazioni. Nel suo articolo, dopo una divertente applicazione iniziale (per decidere se organizzare e come un party all’aperto considerando anche la possibilità che piovesse), passa ad indicarne gli aspetti qualificanti:

a) si muove dalla decisione da prendere,

b) si individuano le diverse alternative di azioni sviluppandole in una logica di causalità;

c) si definiscono le azioni da intraprendere per dar seguito ad ogni alternativa.

Ne consegue una ramificazione di azioni sequenziali tra loro caratterizzanti le diverse alternative, con eventi iniziali e finali, come in qualsiasi rappresentazione reticolare. Il grafo che ne risulta è un albero con più rami, che si conclude indicando il risultato delle diverse alternative, dovuto alla sequenza delle azioni ipotizzate.

Paradossalmente quelle non programmate, per le quali è più difficile l’applicazione, sono anche quelle alle quali è opportuno provare tali applicazioni. Erano gli anni della razionalità e della Ricerca operativa. Erano gli anni Sessanta e su questi temi e in questo contesto si innescò un vivace confronto scientifico. Ovviamente le decisioni catturavano larga parte degli interessi e si era ancora alla ricerca di una tassonomia condivisa. R.N. Anthony (1965) proponeva tre classi di decisioni strategiche, direzionali ed operative. Ansoff (1965) era abbastanza allineato con le sue decisioni strategiche, tattiche ed operative. Il dibattito era ormai ampiamente avviato. Ma la strada sembrava ormai quella tracciata da Simon: “Si è formato un buon dirigente quando un uomo con alcune qualità naturali (intelligenza e una certa capacità ad interagire con i suoi simili) a forza di pratica, apprendimento ed esperienza sviluppa le sue doti un’abilità matura. Le attività rilevanti del processo decisorio si possono apprendere e possono essere oggetto di addestramento quanto le capacità rilevanti per giocare a golf” (op.cit., pp. 12-13).

Non mancò in questo dibattito un’altra voce autorevole: quella di Russell Ackoff. Con Simon divenne uno dei punti di riferimento della letteratura, ma anche della pratica. Ackoff arrivava dalla Ricerca operativa e portando in dote una serie di modelli quantitativi a supporto del processo decisorio. Ma se nel 1977 Herbert Simon pubblicò la seconda edizione di The New Science of Decision Making, nel 1978 Russel Ackoff ampliò l’area di riflessione pubblicando “The art of problem solving” (John Wiley) dove l’attivazione di processi di problem solving non necessariamente porta ad una decisione, ma sta ad indicare l’insieme delle attività atte ad analizzare, affrontare e risolvere positivamente situazioni problematiche. Pertanto la procedura completa comprende le fasi di problem finding, problem shaping e infine problem solving, rispettivamente: individuazione, definizione e risoluzione del problema.

Gaetano Kanizsa propone una definizione di problema secondo la quale: “Un problema sorge quando un essere vivente, motivato a raggiungere una meta, non può farlo in forma automatica o meccanica, cioè mediante un’attività istintiva o attraverso un comportamento appreso”.

Questo termine sta ad indicare la situazione psicologica nella quale si viene a trovare una persona quando, rispondendo a delle sollecitazioni, deve affrontare un problema.

L’approccio scientifico alla risoluzione dei problemi si sviluppa generalmente secondo uno schema intuitivo:

• percezione dell’esistenza di un problema
• definizione del problema
• analisi del problema e divisione in sotto problemi
• formulazione di ipotesi per la risoluzione del problema
• verifica della validità delle ipotesi
• valutazione delle soluzioni
• applicazione della soluzione migliore.

Su questo processo Ackoff offre alcuni interessanti suggerimenti e li propone accompagnandoli con delle “favole”, illustrate da Karen B. Ackoff. Innanzitutto l’utilizzo nel titolo del libro del termine “art” è legato al fatto che il problem solving spesso richiede, nella fase di formulazione di ipotesi, creatività “and art implies creativity” (Ackoff, op. cit., Preface pag. IX). In particolare questo studioso considera la creatività la più importante tra quelle da lui considerate le 5 skills di un efficace dirigente.cTali skill, come ama sottolineare, iniziano tutte per C e sono (Ackoff, op.cit.pag.3): Competence, Communicativeness, Concern, Courage, Creativity.

La creatività è rilevante poiché nel processo si incontrano vincoli (constraint), si devono chiarire gli obiettivi da perseguire, ed è opportuno riuscire ad individuare le variabili controllabili da quelle non controllabili in modo da coglierne gli impatti sui risultati. Scrive Ackoff: “Il modo in cui una alternativa d’azione influenza l’esito di una situazione problematica dipende da come le variabili rilevanti sono interrelate e da come si relazionano al risultato. La convinzione che variabile è significativamente legata al risultato di ciò che facciamo è ciò che ce la fa considerare rilevante. La causalità è il tipo più importante di relazione coinvolta nella risoluzione dei problemi” (Ackoff, op.cit. pag.101; TdA).

Nel momento in cui i modelli quantitativi e gli approcci razionali sembravano prendere il sopravvento vennero pubblicati i primi studi di approfondimento del cervello e venne subito catturata l’idea dei suoi due emisferi con capacità e funzioni diverse. Tra questi vi fu Mintzberg (Hbr, 1976) che interpretò quelle indicazioni per suggerire di rivedere ruolo e profilo dei planner. La predisposizione, in termini di attitudini, a svolgere attività di planner è di quelle persone che nel tempo hanno sviluppato elevate capacità analitiche e logiche, tipiche espressioni dell’emisfero sinistro. Per contro il profilo attitudinale dell’emisfero destro presenta una serie di caratteristiche utili per il managing, per la gestione di situazioni concrete anche complesse: una scarsa attenzione ai dati, ma grandi capacità immaginative, di ascolto e di concettualizzazione.

Sempre Mintzberg precisa: “I cinque amministratori delegati che ho osservato nella mia ricerca preferivano fortemente i mezzi di comunicazione verbale, in particolare le riunioni, rispetto alle forme scritte, vale a dire la lettura e la scrittura. (Lo stesso risultato è stato riscontrato praticamente in tutti gli studi sui manager, indipendentemente dal loro livello nell’organizzazione o dalla funzione che hanno supervisionato). Naturalmente anche la comunicazione verbale è lineare, ma è anche più di questo. I manager sembrano favorirla per due ragioni fondamentali di tipo relazionale. In primo luogo, la comunicazione verbale consente al manager di “leggere” espressioni facciali, toni di voce e gesti. Come accennato in precedenza, questi stimoli sembrano essere elaborati nell’emisfero destro del cervello. In secondo luogo, e forse più importante, la comunicazione verbale consente al manager di impegnarsi nello scambio di informazioni “in tempo reale”. La concentrazione dei manager sui media verbali, quindi, suggerisce che desiderano modalità relazionali e simultanee di acquisizione delle informazioni, piuttosto che quelle ordinate e sequenziali”. Siamo sempre su caratteristiche dell’emisfero destro. Ma queste diversità sono un valore positivo poiché, come evidenzia Harold J. Leavitt nella gestione di un’impresa: “Abbiamo bisogno sia dell’analisi che dell’immaginazione. Abbiamo bisogno di simboli, di immagini e abbiamo bisogno di ascoltare. Abbiamo bisogno di molti tipi di persone con molti tipi di educazione e di istruzione e di molti tipi di inclinazioni. Ma oltre a tutto questo abbiamo bisogno di qualcosa che raccolga il tutto in un bell’insieme e ci dia la migliore tra le soluzioni possibili” (H.J. Leavitt, Psicologia per dirigenti, Etas Libri, Milano, 3td Ed. 1975, pag. 71).

Ogni singola persona ha un suo modello per pensare, decidere e poi agire. Nonostante queste percezioni “situazionali”, per lunga parte del periodo successivo (1980-2000), la maggior parte dei consulenti di direzione statunitensi e alcuni studiosi non smisero di suggerire l’approccio logico-razionale (vedi Bibliografia). Ma nel frattempo la ricerca continuava ad evolversi e sempre Mintzberg, questa volta in compagnia di F. Westley, pubblica Decision Making: it’s not What You Think (Sloan Management Review, Spring 2001). La sua posizione di studioso “fuori dal coro” diventa sempre più importante e sfocerà nel libro “Managers not MBAs” (Prentice Hall, 2004). Nell’articolo della rivista dell’Mit, rivista dove talvolta si rifugiava in alternativa alla pubblicazione su Hbr, affermava che l’approccio classico logico-razionale da Business School, quello del tipo “prima pensare, poi agire”, non è l’unico possibile in materia di processo decisionale e forse neanche il più praticato. Questo approccio, sino a quel momento evidenziato dalla letteratura come l’approccio scientifico e logico- razionale viene messo in discussione sulla base dell’osservazione di alcune diffuse pratiche aziendali e non. Ci sono almeno altri due possibili approcci.

Un secondo approccio indicato e che noi spesso si segue, è quello di “prima vedere, poi fare”. Questo approccio è tipico dell’artista, della persona o dello strategist: si visualizza un’idea, si ha un’illuminazione e poi la si sperimenta. Ricorda Mintzberg: è quello che avvenne ad Archimede e a Newton con la mela. Arriva quel flash illuminante grazie al quale si può gridare “Eureka”. In questo caso la sequenza tipica in molte scoperte creative è: a) preparazione; b) incubazione; c) illuminazione; d) verifica. C’è infine un terzo possibile approccio che Henry Mintzberg ci richiama nel suo: “Decision Making: it’s not What You Think”: “prima fare”. Questo viene applicato dai manager quando i due precedenti approcci non sono praticabili. Così qualche volta tutti siamo chiamati o costretti a fare senza pensare. Insomma, è ormai condiviso da ampia parte della letteratura che un manager non solo non è solo un decision maker, ma spesso segue per decidere differenti approcci. Il fatto che il manager non sia solo un autore di decisioni e che, diversamente rispetto a quanto affermava Simon, non si possa, in modo semplificatorio, affermare: “considererò la parola “prendere decisioni” come se fosse sinonimo di “dirigere” (H. Simon, 1960), lo si può comprendere considerando la presa di decisioni non come un processo a sé, ma come parte importante della più ampia arte del pensare.

Certo, quando si pensa, è opportuno ricordare di evitare di andare in over-thinking poiché in tal caso pensare diventa bloccante ed impedisce il fare. Anche i tempi di possibili riflessioni vanno considerati. Pertanto, la carrellata che si sta realizzando con il nostro percorso “Per un management a regola d’arte” è una conferma che è necessario qualcosa in più. Non è, infatti, la sola arte di pensare quella che può essere utile ad una persona con responsabilità gestionali. È necessario saper gestire tutte le risorse, e soprattutto le persone. Sono necessarie anche altre arti, che è opportuno non sottovalutare o mandare perdute. Alcune di queste fanno parte di una tradizione culturale che precede anche l’era dell’industrializzazione. Certo l’essere entrati, con il secondo millennio, nell’era della conoscenza e della digitalizzazione sta restituendo rilevanza all’arte di pensare. Sono molte le persone che lo fanno di “professione”, l’esercito dei vecchi “white collars” sta crescendo in modo esponenziale.

“Pensare è il lavoro più pesante che ci sia.” Henry Ford

Bibliografia essenziale

“Imparare senza pensare è fatica sprecata.Pensare senza imparare è pericoloso” Confucio

Sull’arte di pensare

OLIVERIO A., L’arte di imparare. Per imparare a decidere. Per usare la forza della mente, Rizzoli, Milano 1999

SIMON H.A., The New Science of Decision Making. Harper & Row, 1st Ed. 1960, 2nd Ed. 1977

SIMON H.A., Direzione d’impresa e automazione, trad. it. di De Vio e Perissich. Etas Libri, 1968

SCHEIN E.H., L’arte di far domande. Guerini Next, Milano, 2014

LEAVITT H.J.,, Psicologia per dirigentI., Etas Libri, Milano. 2 Ed. it. 1975

DAY G. – SCHOEMAKER P., Peripheral Vision. Come prestare attenzione ai segnali deboli. DeAgostini-Isedi, Novara, 2008

Per l’approccio logico-razionale al Decision Making, nei 20 anni successivi (1980-2000) ai contributi di Herbert Simon, per approfondimenti si segnalano:

Tra i contributi scientifici:

MARCH J., Prendere decisioni, Il Mulino, Bologna, 1998

HAMMOND J.S. – KEENEY R.L. – RAIFFA H., Decisioni. Il Sole 24 Ore, Milano, 1999; trad.it di Smart Choices, Harvard Business School Press Boston 1999; parti dei cap. 5 e 6 sono tratte da 2 articoli apparsi su Harvard Business Review 1998.

Tra i lavori dei consulenti due Best Selling Business Book:

KEPNER B. – HIGGINS C. – TREGOE A., The New Rational Manager. Princeton Research Press, 1981

COVEY S.R. – MERRILL R.R. – MERRILL R.A, First Things First. Simon & Schuster, London, 1994

L’evoluzione del pensiero

MINTZBERG H. – WESTLEY F., Decision Making: it’s not What You Think. Sloan Management Review, Spring, 2001

Alcuni dei principali contributi di Henry Mintzberg, sui temi legati al “pensare” da parte del management sono stati raccolti in:

MINTZBERG H., Management. Mito e realtà; Ed. It. con Prefazione di Vittorio Coda, Garzanti Milano 1991

MEADOWS D.H., Pensare per sistemi, Ed. it. curata d System dynamics italian chapter con Prefazione di Carlo Petrini, per Guerini Next, Milano 2019; “Thinking in systems”, Sustainable Institute 2008.

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