Roger Martin ieri ha scritto: “Come me, Rumelt non è un fan della pianificazione”. Preciserei meglio, e mi assocerei anch’io: non sono neanche io un sostenitore di un certo tipo di “pianificazione”. Tuttavia, vi è un certo numero di contro-indicazioni ad un atteggiamento troppo negazionista. Spero di aver chiarito in una serie di recenti contributi che pianificare serve a costringere le persone in azienda ad “alzare lo sguardo”. Questo è esiziale soprattutto in un contesto culturale come quello italiano, dove non si pianifica nulla o si fa finta di farlo (vedi anche la gestione sin qui attuata del Pnrr). In secondo luogo pianificare, come ci ricordava già Peter Drucker, significa:” decidere oggi le cosa da fare domani”. Ma quali “cose” decidere?

Di certo non tutte, ma sicuramente quelle pianificabili e quelle da pianificare poiché rilevanti e con un orizzonte di medio-lungo termine; questo oggi vale anche per uno strumento di maggior dettaglio rispetto al piano qual è il budget; per cui figuriamoci il piano. In terzo luogo, può essere coinvolgente e motivante far partecipare un team di persone, almeno quella al vertice, alla condivisione della rotta che si decide di seguire e delle azioni che si pensano necessarie per farlo.

Così, dei vari tipi di pianificazione l’unica che oggi mi sembra utile praticare è la pianificazione interattiva, guidata dai risultati che si desidera conseguire. In proposito Kaplan (Hbs) scrive di planning for results e poi propone la Balanced Scorecard, Rita Mc Grath (Columbia University) propone il discovery planning. Un approccio quest’ultimo che mi piace definire pianificazione ad azioni variabili. Un approccio attraverso il quale si individuano delle azioni da intraprendere che vengono realmente intraprese, solo se le condizioni di contesto permangono quelle presagite. È una pianificazione non vincolante, ma che stimola a riflettere sulle azioni che contano anche per cambiarle. Ciò che non cambia sono i risultati desiderati, che diventano gli obiettivi da perseguire. Ma con questo approccio, comunque, si riflette sul futuro, ma non solo su quello di breve termine. Non è una strategia senza piani, ma una strategia con pochi piani: quei pochi che servono per investire nelle risorse critiche e nei processi che fanno la differenza in positivo sul piano competitivo.

Questo tipo di approccio qui indicato risulta flessibile ed “agile” come l’approccio Playing to win proposto da Roger Martin. A quest’ultimo approccio dedicheremo comunque uno dei prossimi post ed anche un webinar. Resta il fatto, perfettamente condivisibile, che in un ambiente esterno come quello attuale non si può pensare di praticare una pianificazione estrapolativa, come quella che si poteva praticare negli anni della crescita sostenuta del secondo dopoguerra. Né la pianificazione può permettersi di essere prescrittiva (“si deve fare così”), sarebbe anacronistica rispetto agli andamenti altalenanti e incerti degli ultimi decenni, dalla crisi petrolifera in poi. E neanche purtroppo si può praticare una pianificazione reattiva, tipica della pianificazione strategica; questa infatti richiede un certo grado di prevedibilità e stabilità dell’ambiente esterno: dato che l’ambiente si evolverà in questo modo con l’azienda reagirò in questo modo.

I Pianificatori “seriali”, quelli legati al planning tradizionale, come sottolinea Russell Ackoff sono come gli indiani con la “danza della pioggia”: la fanno tutti gli anni e se poi piove sono convinti che sia merito loro.

Ma pianificare rimane un modo per costringersi a pensare il futuro e per cercare di prepararsi ad affrontarlo con le risorse adeguate. E le risorse necessarie per affrontare il prossimo futuro non sono più solo quelle finanziarie (se mai lo sono state), ma oggi soprattutto è necessario pensare alle risorse umane, alle persone con le loro competenze e le loro motivazioni. Per cui se gli approcci pianificatori del passato non funzionano, è comunque opportuno praticare la ricordata pianificazione interattiva o che realizzi un processo pianificatorio di tipo incrementale (come suggeriva già l’incrementalismo logico di James Brian Quinn): si impara e si cambia pianificando e dando attuazione alla strategia. È un processo continuo e ripetuto, senza un calendario prefissato: si pianifica quando si reputa necessario farlo.

Resta quindi confermata, secondo noi, l’idea che pianificare serve ancora, anche oggi, per questi tre buoni motivi:

-Costringe a pensare al futuro e stimola a prepararsi nella speranza di essere all’altezza e di scriverne qualche passaggio,

-ci si organizza “prima”, per gestire “prima” alcune attività necessarie e alcune risorse indispensabili per conseguire i risultati desiderati,

-si attivano meccanismi di apprendimento organizzativo sia per migliorare quello che si sta realizzando che per innovare.

Insomma ciò che si suggerisce è una pianificazione che vuol essere stimolante più che vincolante.

Certo, resta la grande sfida rispetto alla quale già ci aveva avvertito Donald Michael nel 1997, non basta “imparare a pianificare (learning to planning)”. È indispensabile nell’attuale contesto “pianificare come imparare ad imparare (planning to learn)”.

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