Bisogna essere fortunati per essere invitati a leggere per lavoro autori che poi si riveleranno delle Beautiful Mind. È quello che mi è capitato con The Art of Problem Solving di Russell Ackoff. Era appena entrato in Sda Bocconi (1977) ed ero stato inserito tra le persone del Team che effettuava le “recensioni di Sviluppo & Organizzazione”. Mi capitò questo libro con il quale si insegnava ad esprimere in modo semplice e divertente concetti teorici sui quali stavano lavorando in molti. Il tema era quello del problem solving. A questo soggetto stavano lavorando filosofi come Carl Popper (1979), economisti come Herbert Simon e studiosi di Ricerca Operativa come Russell Ackoff (John Wiley 6 Sons, 1978).

Il “problem solving” è quel processo articolato in più fasi (quello qui proposto è composto da 7 fasi) finalizzato a facilitare le persone nel risolvere problemi. Le fasi in cui si articola questo processo sono:

a. Individuazione del problema, grazie a sensibilità e adeguate capacità percettive,

b. definizione del problema, con 5 aspetti da verificare, fase articolata che richiede per una sua compiuta impostazione:

b1) la definizione di chi deve affrontare il problema: un team più o meno ampio o un singolo,

b2) gli aspetti (variabili) del problema che sono sotto il controllo del decision maker/s,

b3) gli aspetti (variabili) del problema che non sono sotto controllo (uncontrolled variable),

b4) constraints (vincoli) creati dall’ interno o dall’esterno per le variabili in gioco,

b5) i possibili outcome (risultati) prodotti congiuntamente dalle scelte dei decision maker e dalle variabili non sotto controllo (incontrollabili).

c. individuazione di uno o più corsi di azione, è in questa fase che si realizza il momento “artistico”, lasciando spazio nel processo alla creatività, che sarà valorizzata attraverso l’individuazione di alternative di azione diverse da quelle che si sarebbero individuate in modo logico, applicando in modo “asettico” la metodologia; se non si fosse aperti alla creatività non sarebbero venuti in mente il Design Thinking di Tim Brown (per approfondimenti sul design thinking, si vedano i contenuti del nostro blog a questo link) si suggerisce di avviare attività circolari come se si fosse dei “progettista di prototipi”; questi individuata la soluzione testano i risultati che si ottengano e, se necessario, intervengono per riportare l’outcome in linea con quanto desiderato. È quello che enfatizzano alcuni nostri pittori-designer come Bruno Munari e che sostengono non valga per pochi: “Da cosa nasce cosa” (Laterza 1981).

È un atteggiamento che veniva anche già suggerito dall’approccio Trial & Error (Tentativi ed errori) diffusosi negli anni Sessanta; si continuano a cercare soluzioni alternative di un problema poiché si è stimolati dall’errore a ricercare una nuova soluzione, sino a trovare quella che sembra esserlo; ci si apriva all’adozione di comportamenti adattivi, come proponeva in un suo libro Ross Ashby;

A questa fase, quella, con qualsiasi approccio, a contenuto creativo più elevato segue:

d. raccolta delle informazioni in relazione alle diverse alternative individuate,

e. valutazione e scelta del corso di azione ritenuto più appropriato per perseguire gli outcomes (risultati) desiderati (espressi o meno da obiettivi quantitativi),

f. convincimento delle persone che non hanno partecipato alla soluzione di quel problema,

g. Controllo delle soluzioni via via attuate e dei loro risultati (con l’eventuale sorgere di nuovi problemi).

Non è quindi una puntuale applicazione della metodologia, senza creatività, quella che garantisce l’efficace risoluzione del problema, né questa metodologia quella che garantisce una soluzione individuata con validità scientifica. Non può essere un’attenuante di errori finali indesiderati quella di affermare: “ma abbiamo seguito la procedura”. L’efficace risoluzione, anche secondo Popper, dipende da quanto il problem solver riesce ad essere creativo, soprattutto nella fase ipotetico-deduttiva che si contrappone a quanto suggerito dal metodo induttivo, in base al quale ci si aspetta di dalla realtà il possibile suggerimento nella risoluzione di un problema.

Un breve esempio può aiutare la carretta impostazione di questo processo: l’idea di Ikea di fare mobili componibili nasce da un’ipotesi sviluppata dai vertici dall’azienda e poi verificata nella sua validità nel tempo, in modo deduttivo. Inoltre, l’intuizione non si può fermare lì. Come succede spesso dalla risoluzione di un problema nascono nuovi problemi e con costanza ed efficacia è necessario cercare di trovare soluzioni. Karl Popper ricordava anche con il titolo di un suo libro che spesso ci si trova: “Tutta una vita a risolvere problemi”. In azienda una cosa è certa: senza creatività difficilmente si risolvono alcuni problemi, soprattutto quelli strategici. Si rischia di prospettare soluzioni ottime per migliorare l’esistente e che si spera possano rivelarsi efficaci. Ma forse questa non è la soluzione convincente. Per fortuna dipende anche da quanto i competitor sono creativi.

In proposito può risultare utile per essere stimolati a cambiare quest’atteggiamento il ruolo in termini di apprendimento organizzativo che può essere svolto da quest’ultimo aspetto, spesso dimenticato: quello di tentare di anticipare i problemi rispetto ad un loro concreto manifestarsi. E questo è in buona parte legato al fatto di utilizzare sistemi informativi adeguati con modelli di simulazione e proiezioni di variabili predittive. Oggi con le tecnologie disponibili è più facile farlo, ma spesso non lo si fa.

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