Il passaggio da risultati desiderati a performance è stato breve, forse molto più breve di quanto non si potesse ipotizzare. I motivi sono semplici: le non poche delusioni date, per mancanza di comportamenti rispondenti alle aspettative, dal Managing by Results e poi dal Managing by Objective. Entrambe le proposte, formulate dai primi studiosi di management (P. Drucker), hanno segnato un’epoca ma sono poi state superate dal Performance Management. È appena il caso di sottolineare che dal caratterizzarsi della performance dipendono il risultato e il raggiungimento di un obiettivo. Quindi quando si pensa di gestire una performance si ha in mente di farlo per un obiettivo o un risultato che si desidera conseguire.

A richiamare la nostra attenzione su questo tema sono due libri: il primo di A. Colamedici e M. Gancitano; il secondo di Charles Hofer. Nel primo libro i due autori sottolineano quanto a livello individuale lo scopo finale della società delle performance sia creare un’immagine idealizzata di noi stessi; una finalizzazione ampliata e facilitata dalle tecnologie e dai social network oggi diffusamente disponibili. Inoltre “la somma delle valutazioni ricevute dalle performance costituisce la reputazione […]. Per uscire da questa “caverna” in cui ci troviamo a vivere è sufficiente tentare di uscire, prima di tutto come insegnava Platone, il maggior numero di persone; in secondo luogo, ricorrendo a momenti di ozio che si contrappone alla laboriosità, l’insolito e la ricerca delle diversità invece del ranking e del fatturato.

Il secondo lavoro è Measuring Organizational Performance: Metrics for Entrepreneurship and Strategic Management Research di Charles Hofer e Roberto Carton (Edgar E. Pub, 2007). Il primo dei due autori è conosciuto da molti studiosi e persone d’azienda per i suoi studi nell’area della Strategia aziendale. E, come nel suo precedente libro pubblicato in Italia (La formulazione della strategia aziendale, con Dan Schendel, F.Angeli Milano 1988), l’autore ci regala una preziosa ed indispensabile rivisitazione di un’ampia gamma di indicatori di performance. Così come nel 1988 richiamò l’attenzione su ciclo di vita, posizione di mercato dell’impresa e investimenti più opportuni da adottare, è a lui che devo la mia folgorazione sull’utilità segnaletica dell’indicatore “valore aggiunto” e sulla sua valenza di indicatore strategico. L’indicatore suggerito da Hofer, come sintesi della performance strategica, è il Rova-Return on value added, dato dal rapporto tra Valore aggiunto % e Reddito netto %. Tanto più quest’indicatore è > 1 quanto più è espressione di un’efficace generazione di valore aggiunto (che per me esprime la “quantità di intelligenza” che c’è in quello che si fa) e di un efficiente utilizzo delle strutture aziendali.

Così per uscire dalla caverna dobbiamo darci pochi e selezionati indicatori di performance. Uno di questi per una sintesi della gestione strategica è il valore aggiunto: o nella versione proposta da Hofer (Rova) o nella versione che si propone e che separa la produttività delle strutture (Ricavi su costo del personale) dalla produttività intellettuale (Valore aggiunto diviso ricavi). Per migliorare questi indicatori deve migliorare la performance nel suo complesso. Pertanto, ad esempio, se l’obiettivo è migliorare la qualità del prodotto/servizio offerto, con il Performance Management si porrà l’enfasi sulle azioni da intraprendere per conseguire il risultato desiderato.

In questo scenario ognuno di noi ha degli obiettivi, dei risultati da perseguire e delle performance alle quali dare in coerenza seguito, per essere performante. È una questione di diverse angolature attraverso le quali osservare la gestione aziendale. In proposito ci si può interrogare su quanto la società ci chieda di essere performer performanti. Come forse si intuisce, ci sono almeno due diverse scuole di pensiero. La prima non è interessata alle attività nelle quali essere performante ma a “quanto” essere performanti e questo per poter dare un ranking. È la scuola più efficientista. La seconda è la scuola attenta all’efficacia: più che il “quanto essere performante” interessa il “perché” esserlo. Questa seconda Scuola è quella che ha portato al diffondersi del performance management anche nell’ampia area della sostenibilità dove la considerazione della dimensione sociale e ambientale spesso spingono ad essere un po’ meno efficientisti in attività, che in passato, erano al centro del Performance Management.

Si pensi a molte attività in fabbrica, dove l’efficienza poteva anche andare a danno della qualità del prodotto; o anche in logistica dove le logiche del “full truck load” possono essere vincenti rispetto a quelle della tempestività delle consegne; anche perché le due logiche richiedono anche configurazioni di un parco automezzi con veicoli di dimensioni più o meno grandi. Molte cose sono cambiate da allora. La scuola della qualità e il lean thinking hanno sicuramente dato una mano. Per uscire dallo “stress” della caverna in cui siamo imprigionati la selettività insieme alla creatività possono darci una mano.

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