Con i focolai di un nuovo Rinascimento prende vigore il diffondersi di un rinnovato interesse per le discipline e la cultura umanistiche che ne sono la colonna portante. Questo interesse non risparmia neanche il management e le sue tante teorie. Si scopre così che nelle imprese del nostro Paese, con il loro management sotto-culturizzato dal punto di vista delle teorie di management anglosassoni, i manager italiani vivono di luce autonoma laddove prevalgano nei loro curricula gli studi umanistici. La cultura lascia sempre un segno. È quello che distingue un popolo civile dai barbari o da chi ne è discendente in modo più meno diretto (questione di secoli). Non ho condotto una ricerca accurata, ma i tanti anni passati in Sda-Bocconi a fare prima il segretario del MBA e poi il coordinatore dell’Executive Mba e del General Management Program, mi consente un’affermazione provocatoria: i nostri diplomati del liceo classico, meglio di quelli dello scientifico e di altre suole superiori, con una laurea in filosofia, sono spesso risultati gli studenti migliori quando si trattava di Strategie aziendale e di Marketing. In queste persone ritrovo un curriculum più vicino alle soft skill indicate dal WEF (World Economic Forum) come quelle più richieste. Fra queste rientrano:

-La capacità di essere innovativi (Innovation);

-L’apprendimento attivo (Active Learning);

-La creatività;

-L’originalità e lo spirito di iniziativa (Creativity Originality and Initiative);

-La capacità di gestire un gruppo (Leadership and Social Influence).

È quindi da valutare in positivo quanto evidenziato da Adecco nel suo “Lauree umanistiche? Disoccupazione garantita!” quando nel documento ricorda il successo che stanno avendo sul mercato i laureati in materie umanistiche. Certo è meno positivo l’altro dato riportato che sottolinea: mentre la media Ocse è del 37% dei laureti tra le persone in età tra i 25-64 anni l’Italia raggiunge appena il 19%. Ma qualcosa sembrerebbe cambiare anche in quest’ambito e questo dal lato dell’offerta. Nascono la Holden School di Torino, i Master a marchio Treccani ed altre iniziative formative per far riscoprire il bello della cultura; poiché come si afferma nel pensiero orientale: la cultura per i singoli è un bene prezioso che nessuno può portare via. Investire in cultura è strategicamente corretto.In tale contesto non mi stupisco se finalmente negli ultimi cinque anni l’Italia ha iniziato a valorizzare il suo incredibile patrimonio artistico e qualcuno correttamente ci ha anche ricordato: “Quando eravamo i padroni del mondo” in epoca romana.

Prima lo erano stati i Persiani e poi i Greci, al loro massimo splendore territoriale, poi Alessandro Magno. Successivamente venne il periodo arabo con la conquista del Mediterraneo, della Spagna e l’approdo in Sicilia. Tutto si fermò a Poitiers (732 d.C.). E poi un alternarsi di sovrani che spezzettarono il mondo piuttosto che riunirlo; questo almeno in occidente. Studiando un po’ la storia sembrerebbe che a conquistare il mondo sia quel popolo che non è detto sia il più forte, ma è quello culturalmente a un livello superiore rispetto agli altri. Conquista poiché, desiderando continuare a crescere, ha bisogno di nuovi territori e di nuove risorse. Ma ci sono stati anche i “periodi di mezzo”, periodi talvolta bui dove le arti si spengono e in cui nessuno, tra quelli che vorrebbero “espandersi”, prevale sugli altri. Oggi, con un salto di qualche secolo si approda ad un XXI secolo in cui si fanno “guerre” non tanto per conquistare, ma per affermare la propria forza e la propria supremazia. Si producono e consumano armi e si dà spazio ad un sovranismo dilagante. Ed è in questo contesto, nel quale la triade (Giappone, Stati Uniti ed Europa) alla guida del mondo è diventata una quadripolare con l’aggiungersi del blocco orientale Russia- Cina-India. Si tratta di sbloccare una situazione sempre in equilibrio precario tra pace e guerre e dove il precipitare verso una guerra mondiale potrebbe essere pur sempre facilmente imboccabile con conseguenze apocalittiche. Così c’è chi, come Baricco (The game,,intravede potenziali salvifici nel web, grazie al fatto di far crollare i confini tra le diverse regioni del mondo e interconnettendo le persone. Propongono queste chiavi di lettura positive quasi sempre filosofi e scrittori.

E questi sono anche i risultati del sempre maggior vigore con cui rifioriscono le iniziative di livello culturale. Così oggi in Italia esistono almeno tre festival di cultura umanistica: il Festival della mente a Sarzana (2024 – XIX Edizione), il Festival della cultura umanistica (Figlino Valdarno – 2024 V Edizione) e il Festival Rinascimento culturale (Brescia e provincia – 2024 XI Edizione). Si vanno diffondendo a livello locale i Festival Jazz, dando seguito ad un’iniziativa antesignana che guarda caso si è sempre tenuta nel cuore verde dell’Italia: l’Umbria. Oggi Umbria Jazz è alla sua 51° Edizione, mentre i nostri teatri di musica classica sono stati riscoperti, anche quelli più piccoli, e spesso realizzano quelli che solo qualche anno fa erano degli inimmaginabili sold out. Il crescente numero di persone, richiamato da questi eventi, ci aiuta a sperare di aver colto ed avervi evidenziato un megatrend importante: il ritorno della cultura e dell’umanismo. In questo contesto è arrivato “Humanocracy” di Gary Hamel e Michele Zanini. Il libro è entusiasmante e sarà al centro di uno speciale sulla nostra piattaforma. Qui desidero anticipare alcuni aspetti qualificanti di quel lavoro:

-Abbandonare la burocrazia per adottare la meritocrazia, come criterio di valutazione delle persone,

-Spazio alla creatività,

-Praticare una imprenditorialità diffusa, spingendo e premiando l’innovazione (tutti imprenditori),

.Gran parte del lavoro si svolge in Team,

-Clima organizzativo e il senso della comunità,

-Grande attenzione alle competenze delle persone,

-Potere all’aprirsi (Open….)

Sempre qui, inoltre, desidero sottolineare quanto i suggerimenti di questo libro siano simili a molte soluzioni che Adriano Olivetti aveva adottato ad Ivrea (Torino) in quella che era già un’impresa “diversa”, l’Olivetti di Camillo Olivetti.

Insomma, si scopre quanto sia vero quello che Giorgio Gaber già nel 1976 in una sua canzone (L’America) ci ricordava: “A noi, ci hanno insegnato tutto gli americani, Se non c’erano gli americani, a quest’ora noi eravamo europei”. La soddisfazione è che anche noi abbiamo insegnato qualcosa agli americani. Come ci ricorda il caso Olivetti, discusso dal 1967 nelle aule della Harvard Business School da K. Andrews, Roland Christensen, W, Guth e E. Learned nel corso di Business Policy, (Irwin 1967). Grazie a questo caso rimarranno nel tempo nella mente degli americani L’Olivetti style e per i suoi prodotti, l’Olivetti Touch.

Così come ci insegna la storia di Mattei all’Eni, delle imprese produttrici di auto sportive e di ingegneria meccanica, con in testa la Ferrari e come ha dimostrato un ex-Olivetti, qual è Faggin, inventando alcune fra le soluzioni più rivoluzionato nel mondo informatico degli ultimi cinquanta anni: microprocessori, touchscreen, touch pad. Oggi siamo in più persone ad esserne coscienti di cosa significhi essere italiani. L’importante è riuscire a diffondere questa consapevolezza, dentro e fuori il nostro Paese: gli italiani possono svolgere, come è sempre stato in passato, un ruolo rilevante nello sviluppo della cultura, anche manageriale, del nostro declinante e non più globalizzato pianeta.

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