Quando si parla di futuro è necessario capire quanto una profezia sia da ascriversi a una qualche Cassandra o si basi su modelli matematici, anche raffinati, ma poco affidabili o peggio ancora ad indicazioni che volutamente desiderano essere shoccanti, ma “pro domo” di qualcuno. Quest’estate su questo tema ci invita a riflettere Adi Ignatius, nella sua qualità di editor di Harvard Busienss Review. Cita l’articolo di due consulenti BCG, Szlezak-Swartz, pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 2024 della rivista e ricorda il loro libro dal titolo emblematico: Shocks, Crises and False Alarm (HBR Press, Boston 2024).
A suo parere l’attenzione che i media ci inducono a prestare alle previsioni è talvolta volutamente fuorviante o peggio paralizzante.
Anche perché poi non sempre le profezie si avverano e bisogna diffidare soprattutto dagli allarmismi eccessivi. Ribadiscono inoltre i due consulenti BCG: “For every true crisis there are many false alarms,” they write. “Understanding macroeconomic risk—the potential for negative or positive change, both cyclically and structurally—is essential to grasping these threats with rational optimism.”
Per capire meglio l’effetto media ci si può chiedere: quali sono le conseguenze degli eccessivi allarmismi? Spesso ne scaturisce una prudente attesa del management circa il reale evolversi dei fatti e una fiducia che viene meno in tutti gli operatori economici siano essi consumatori o fornitori di beni e servizi. Per molti, come ci suggerirebbe Eduardo De Filippo: “ha da passa’ a nuttata!”
Quindi si andrebbe in stallo, se non fosse per quelle persone che più attente alla “storia” e alle possibli relazioni tra variabili elaborano scenari meno drammatici e con qualche indicazione di realistico ottimismo. Ed è qui la differenza tra Cassandra ed altri oracoli. Rifacendoci in Italia alla prima Repubblica, molti non si sono dimenticati, le previsioni sull’andamento della nostra economia formulate dall’On. Ugo La Malfa, simpaticamente soprannominato “Cassandra”.
Negli ultimi cinque anni, dal marzo 2020, quando con il Covid si iniziavano a diffondere nel nostro Paese, Cassandre e oracoli si pronunciavano con profezie molto diverse. Ci si misero anche i virologhi. Chi parlava di una probabile nuova Grande Depressione, chi dava per spacciato il vecchio modello di economia di mercato aperto e chi prospettava che quella fosse la prima di una serie di situazioni pandemiche. Così a livello globale il Paese che riusciva a gestire in modo più efficace e rapido il Covid, percependone una possibile durata contenuta, avrebbe potuto realizzare poi una ripresa economica da record. E così è stato per la Cina, ma ancor più, a livello occidentale, per l’Italia. Non parliamo poi dell’inflazione che da lì a poco avrebbe iniziato a manifestare i suoi effetti. Al suo apparire molti gridarono “al lupo, al lupo!”, ma nonostante le guerre in atto non vi erano i presupposti in base ai quali il fenomeno risultasse “strutturale” o che, peggio, si andasse incontro ad un periodo di “stagflazione”. Certo la BCE, cautamente, ha tenuto il tasso di interesse alto, date le differenti strutture economiche dei Paesi membri della UE; si voleva evitare che i “focolai” perdurassero e si propagassero. Ma questa prudenza è costata in termini di crescita economica.
Dalle riflessioni dei due autori e di Adi Ignatius emerge quindi un aspetto sul quale lavorare. Così come abbiamo, anche noi, spesso raccontato in questi ultimi anni è più che mai fondamentale la domanda che ci si deve porre: ma il cambiamento indotto da un fenomeno, manifestatosi a livello di ambiente esterno, è frutto di un cambiamento “congiunturale” o di un cambiamento “strutturale”?
La differenza è descritta dai grafici esemplificativi qui di seguito riportati:
Entrambi i fenomeni ricordati erano cambiamenti “congiunturali”, mentre le “guerre” più o meno vicine a noi e più o meno raccontate con enfasi dai media si sono dimostrate cambiamenti strutturali. Così anche i loro effetti (embarghi, ritardi nei trasferimenti, aumento dei costi di transizione) sono stati profondi e per molti c’è stato bisogno di capire come attrezzarsi. Il canale di Suez è una delle aree di transito degli scambi internazionali più a rischio di impatto negativo di questi fenomeni strutturali. Ma il cambiamento da contesto di diffusa pace ad un contesto caratterizzato da focolai di guerra è ormai un dato di fatto con il quale convivere e anche il passato un po’ meno recente con Iran, Afghanistan e con le tensioni tra Cina e Taiwan.
È ai cambiamenti strutturali che ci si deve adattare e il più rapidamente ed efficacemente possibile. Lo si deve cercare di fare sia con le soluzioni organizzative che con le skill richieste alle persone che operano in azienda. Chi ci riesce (Paese o impresa) e lo fa per primo godrà di un vantaggio competitivo, più o meno duraturo, in relazione ai tempi di risposta degli altri. Così, ad esempio, nel decennio della alta inflazione (1975-85) sia in Italia che in tutti gli altri Paesi toccati da tale fenomeno, fu necessario, per gestire con maggior efficacia le imprese, introdurre alcuni accorgimenti per la gestione finanziaria e la gestione dei cambi valutari (dato anche l’alto costo del denaro). Ma quelle imprese che introdussero anche soluzioni di contabilità per l’inflazione (ad esempio General Electric e la Pirelli) ebbero la capacità di muoversi grazie ad una maggior comprensione dei risultati eco-fin “reali” e non traditi ed abbagliati da quelli contabili-monetari.
Così leggendo l’articolo dei due consulenti BCG viene da chiedersi: quale e quanti fiammiferi si accenderanno al passaggio di un dato fenomeno di ambiente esterno?
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