Learning Perspective
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The service profit chain
HESKETT J.L. - SASSER W.E. - SCHLESINGER L.A., The service [...]
The insight edge: an introduction to the theory and practice of evolution management
LASZLO E. - LASZLO C., The insight edge: an introduction [...]
Built to last. Successful Habits of Visionary Companies
COLLINS J.C. - PORRAS J.I., Built to last. Successful Habits [...]
Competence-based competition
HAMEL G. - HEENE A., Competence-based competition. Wiley, 1994 [one_half] [...]
Inside the Harvard Business School. Strategies and lessons of America’s Leading School of Business
EWING D.W., Inside the Harvard Business School. Strategies and lessons [...]
Service breakthroughs. Changing the rules of the game
HESKETT J.L. - SASSER W.E. - HART C.W.L., Service breakthroughs. [...]
Learning From…
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A. Bubbio – Ipercompetizione e gestione d’impresa
Da molto tempo le imprese operano in un contesto di ipercompetizione ma oggi, ancor più che in passato, comprenderne e gestirne le determinanti è indispensabile per continuare ad avere buoni risultati. Scopri di più
A. Bubbio – Analisi dimensione economico-finanziaria
Alcuni spunti di riflessione sulla dimensione economico-finanziaria d’impresa, l’ambiente esterno e le dinamiche che intercorrono tra i due. Uno di quei temi che non si possono non conoscere. Scopri di più
A. Bubbio – Activity Based Costing: un imprescindibile strumento per la gestione strategica. Scopri di più
Video Selection
Alberto Bubbio Dialogo con gli autori di Sviluppo & Organizzazione (65 min)
Michael Porter: Aligning Strategy & Project Management (69 min)
Henry Mintzberg: Mintzberg’s Managerial Roles (10 min)
Vittorio Coda: Valore imprenditoriale e strategico delle imprese (32 min)
Marco Vitale: L’impresa del terzo millennio (10 min)
Giulio Sapelli: I manager del futuro (17 min)
Alberto Bubbio: La Matrice di Ansoff (4 min)
Researches & Surveys
Consulta i risultati delle ricerche condotte dal team di Manage-Mind o da altri centri ed i risultati di ricerche scelte dalla community attraverso i sondaggi.
L’attività dei Consiglieri di Amministrazione
Si offrono nuovi spunti di riflessione sul tema con un focus sulle imprese italiane grazie ai risultati della ricerca condotta da CG Governance Consulting che stimolano a riflettere su cosa dovrebbe fare e cosa fa davvero un Consigliere di Amministrazione.
Stato dell’arte della corporate governance in Italia
La ricerca (link) condotta nell’ambito dell’Osservatorio sulle pratiche manageriali delle imprese italiane (BPM LAB), nato in LIUC – Università Cattaneo in collaborazione con OUTLOOKSOFT Italia, indaga le modalità con cui 100 aziende di grandi e medie dimensioni (di cui il 25% quotate in borsa) sono dirette e controllate, ossia praticano la Corporate Governance.
Management tools & trends
La ricerca condotta da Bain & Company indaga i principali strumenti di management adottati dalle aziende. La società prende in rassegna 25 tools ed un campione di manager appartenenti a diverse aree: Nord America, Europa, Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente.
The beautiful minds of management
The beautiful minds of General Management
Consulta la bibliografia e le principali idee innovative
Nato negli Stati Uniti nel 1954 è uno dei massimi esperti di management a livello internazionale ed è il fondatore della società di consulenza Strategos.
Dopo essersi laureato nel 1975 presso la Andrews University, ha conseguito nel 1990 un PhD presso l’università del Michigan. Ha successivamente intrapreso la carriera accademica dapprima presso la stessa università del Michigan e dopo presso la Harvard Business School e la London Business School. È stato nominato dalla rivista Forbes il più grande esperto di business strategy a livello mondiale e i suoi libri sono stati tradotti in 25 lingue.
Gary Hamel ha introdotto insieme a Prahalad il concetto di competenze core. Le competenze core o competenze distintive sono un insieme di risorse e di capacità che rendono unica un’impresa in una determinata arena competitiva. In genere esse sono trasversali a un’attività o ad un settore e possono riferirsi alla capacità di progettare o realizzare un prodotto/servizio ma anche all’attitudine ad organizzare o programmare l’attività. Non sono pertanto identificabili nel know-how, quanto piuttosto al “saper fare”.
Insieme allo stesso Prahalad ha poi enfatizzato il concetto di intento strategico. Nella definizione degli autori, l’intento strategico è un obiettivo a lungo termine (10-20 anni) che trae origine dalle competenze chiave dell’impresa che il management cerca di estendere fino al limite, coinvolgendo e motivando tutti i livelli dell’organizzazione. L’intento strategico ha dunque l’obiettivo di creare e trasmettere un senso della direzione verso cui lanciare ed indirizzare tutta l’azienda.
Bibliografia:
1. HAMEL G., What matters now: how to win in a world of relentless change, ferocious competition and unstoppable innovation. Jossey-Bass, 2012
2. HAMEL G. – PRAHALAD K., Strategic intent. Harvard Business Press, 2010
3. HAMEL G., The future of management. Harvard Business Press, 2007
4. HAMEL G., Leading the revolution. Plume, 2002
5. HAMEL G. – DOZ Y., Alliance advantage: the art of creating value through partnering. Harvard Business Press, 1998
6. HAMEL G. – PRAHALAD K., Competing for the future. Harvard Business Press, 1992
James Brian Quinn (1928-2012). Nato a Memphis, si è laureato all’università di Yale nel 1949 e ha conseguito un MBA presso la Harvard Business School nel 1951. Ha insegnato alla Tuck University dal 1957 al 1993 ed è considerato uno dei massimi esponenti di tutti i tempi in materia di pianificazione strategica, gestione del cambiamento tecnologico e innovazione.
Quinn riteneva che la risorsa più importante di un’azienda è rappresentata dall’intelligenza di cui può disporre. L’impresa intelligente secondo James Brian Quinn è quella che preferisce svolgere al suo interno tutte quelle attività che aumentano il valore per il cliente e per le quali si dispone delle competenze necessarie. Non è invece intelligente quell’impresa che decide di esternalizza tutto e di tagliare il più possibile le strutture semplicemente per diventare lean e flessibile. Lo è invece quella che lo fa con saggezza e sulla base di oggettive e precise informazioni. In questa fase d’ analisi si può quindi scoprire che alcune risorse dedicate ad attività poco apprezzate dal cliente potrebbero essere in realtà liberate e allocate alle attività generatrici di valore per il cliente stesso. Si può inoltre scoprire che alcune competenze esistenti in impresa non sono state adeguatamente sfruttate per migliorare lo svolgimento di attività critiche.
Bibliografia:
1. QUINN J.B. – WINSLOW C.D., Futurework: putting knowledge to work in the knowledge industry. Free Press, 2010
2. QUINN J.B. – BARUCH J.J. – ZIENN K.A., Innovation Explosion. Free Press 1997
3. QUINN J.B., Intelligent Enterprise: a knowledge and service based Paradigm for industry. Free Press, 1992
4. MINTZBERG H. – QUINN J.B., The strategy process: concepts, contexts, cases. University of Michigan: Prentice Hall 1991
5. BEER M. – EISENSTAT R.A. – SPECTOR B. – LAWRENCE P.R. – QUINN MILLS D. – WALTON R.E., Managing human assets. Free Press, 1984
6. QUINN J.B., Strategies for change: logical incrementalism. University of Michigan: Irwin 1980
Henry Mintzberg (1939). È un autore di fama internazionale e dal 1968 è professore di Management alla McGill University di Montreal. Ha conseguito il Master in Management e il dottorato di ricerca presso la Sloan School of Management.Con oltre 150 articoli e decine di libri, Mintzberg è attualmente uno degli autori più prolifici su temi di organizzazione e business strategy.
Mintzberg ha enfatizzato l’importanza del concetto di Strategia emergente (crafting strategy) sottolineando che la strategia realizzata che osserviamo nella realtà rappresenta soltanto parzialmente la strategia deliberata e che le determinanti fondamentali della strategia realizzata sono date dalla strategia emergente, ovvero quell’insieme di decisioni che i manager attuano in risposta ai cambiamenti delle circostanze esterne e ai modi in cui la strategia deliberata viene interpretata. Egli sostiene dunque che formulazione e realizzazione della strategia debbano andare di pari passo e che la strategia deve essere costantemente adattata e modificata in base alle circostanze e all’esperienza. In sintesi, le strategie teorizzate da Henry Mintzberg sono le seguenti:
• Strategia deliberata: è la strategia come viene concepita dai dirigenti;
• Strategia realizzta: è la strategia che viene effettivamente implementata;
• Strategia emergente: è l’insieme di decisioni che emergono dal complesso processo in cui i manager interpretano la strategia deliberata e la adattano alle circostanze esterne
A Mintzberg si riconducono inoltre importanti contributi sul tema dell’organizzazione aziendale. Egli ha infatti ipotizzato una teoria dell’organizzazione basata su cinque configurazioni di struttura che variano al variare delle condizioni di alcuni elementi. Gli elementi essenziali di riferimento per la progettazione organizzativa sono i meccanismi di coordinamento e le parti componenti di un’organizzazione. I meccanismi di coordinamento attribuiscono all’organizzazione un ruolo di coordinamento e di controllo e comprendono: la gerarchia, la standardizzazione del lavoro, la standardizzazione degli output, la standardizzazione degli input, il reciproco adattamento, quindi il ricorso a processi di comunicazione interpersonale di tipo orizzontale che coinvolgono le stesse persone che devono coordinarsi. Le parti componenti di un’organizzazione comprendono invece: il vertice strategico, il nucleo operativo, la linea intermedia, la tecnostruttura, che provvede a determinare interventi di standardizzazione; lo staff di supporto, che fornisce i servizi non direttamente collegati al flusso operativo.
Mintzberg dunque afferma che la scelta delle forme organizzative deve obbedire ad una logica sistematica e rigorosa, basata sulla coerenza tra le varie parti e individua 5 configurazioni organizzative: la struttura semplice, burocrazia meccanica, burocrazia professionale, soluzione divisionale, l’adhocrazia.
• La struttura semplice. È la configurazione più elementare. Essa si caratterizza per la supervisione diretta eseguita dal vertice che accentra le varie funzioni e si collega al nucleo operativo senza avvalersi di uno staff;
• La burocrazia meccanica. Quando la supervisione diretta non è più sufficiente, si passa ad un altro meccanismo di coordinamento fondato sulla standardizzazione dei processi lavorativi e la parte incaricata di questo compito è la tecnostruttura. In questa configurazione la parte più consistente del nucleo operativo è costituita da soggetti che forniscono mansioni ripetitive e prive di discrezionalità
• La burocrazia professionale. In alcuni casi il coordinamento non si esercita attraverso la standardizzazione del modo di lavorare ma attraverso la standardizzazione delle capacità di dipendenti. In questo caso il nucleo operativo è formato da professionisti dipendenti che operano con ampi margini di discrezionalità e che si sono formati al di fuori dell’organizzazione e sono stati assunti in seguito ad un esame iniziale delle loro capacità.
• La soluzione divisionale. Il quarto meccanismo di coordinamento consiste nella standardizzazione degli output e la parte dell’organizzazione che corrisponde a questo meccanismo è la linea gerarchica intermedia. Come nella burocrazia professionale, anche la soluzione divisionale gode di un’ampia autonomia. L’autonomia non riguarda però le singole persone, quanto le strutture alle quali la direzione centrale affida degli obiettivi da raggiungere.
• L’Adhocrazia. Il quinto meccanismo di coordinamento è quello dell’adattamento reciproco. Si tratta di un meccanismo non gerarchico, immediato ed informale che risponde all’esigenza di realizzare innovazioni complesse richieste dal cliente o dall’organizzazione stessa. Questo tipo di innovazione richiede l’interazione di esperti appartenenti a discipline diverse in gruppi di progetto e per questo viene a crearsi una struttura a matrice che utilizza contemporaneamente raggruppamenti funzionali e di mercato.
A Mintzberg si devono inoltre numerosi studi sulla pianificazione strategica. Nel suo libro “The rise and fall of strategic planning”, egli afferma che la strategia non può essere pianificata in modo esatto.
Bibliografia:
1. MINTZBERG H., Rebalancing Society: Radical Renewal Beyond Left, Right, and Center. Berrett-Koehler, 2015
2. MINTZBERG H., Simply Managing: What Managers Do – and Can Do Better. ReadHowYouWant, 2013
3. MINTZBERG H. – LAMPEL J. – AHLSTRAND B., Management? It’s not what you think. AMACOM, 2010
4. MINTZBERG H., Tracking Strategies: Towards a General Theory of Strategy Formation. Oxford University Press, 2008
5. MINTZBERG H. – LAMPEL J. – AHLSTRAND B., Strategy bites back: it is far more, and less, than you ever imaginedFT Press, 2005
6. MINTZBERG H., Managers not MBAs: a hard look at the soft practice of managing and management development. Berrett-Koehler, 2004
7. MINTZBERG H., Why I hate flying. Texere, 2001
8. MINTZBERG H. – BOURGAULT J., Managing publicly. Institute of public administration of Canada, 2000
9. MINTZBERG H. – LAMPEL J. – AHLSTRAND B., Strategy safari: A guided tour through the wilds of strategic management. Free Press, 1998
10. MINTZBERG H. – QUINN J.B., The strategy process: Concepts, context and cases. Prentice Hall, 1995
11. MINTZBERG H., The Canadian Condition: reflections of a “pure cotton”. Stoddart, 1995
12. MINTZBERG H., The rise and fall of strategic planning. Free press, 1994
13. MINTZBERG H., Structure in fives: designing effective organizations. Prentice Hall, 1992
14. MINTZBERG H., Mintzberg On management. Free Press, 1989
15. MINTZBERG H., Power in and around organizations. Prentice Hall, 1983
16. MINTZBERG H., The structuring of organizations. Prentice Hall, 1979
17. MINTZBERG H., The nature of managerial work. Harpercolins college, 1973
Nato a Baltimora nel 1952, Peters è uno scrittore su temi di management. Si è laureato presso la Cornell University e ha ottenuto un PhD presso l’università di Stanford. Dopo aver ricoperto incarichi presso il Pentagono e la Casa Bianca durante l’amministrazione Nixon, ha iniziato la sua carriera di consulente presso la società McKinsey di cui è diventato partner nel 1979.
Nel 1982 ha pubblicato “In search of excellence” il suo libro più importante scritto in collaborazione con Robert H. Waterman. In questo libro i due autori delineano alcuni fattori comuni che stanno alla base del successo delle aziende. Le aziende eccellenti secondo gli autori sono quelle che ricercano costantemente i seguenti aspetti:
1. Approccio empirico;
2. Orientamento al cliente;
3. Incoraggiamento dell’imprenditoria e dell’imprenditorialità;
4. Coinvolgimento del personale;
5. Enfasi su un valore chiave;
6. Concentrazione dell’attività sulle aree note;
7. Struttura semplice e staff ridotto;
8. Flessibilità dei controlli
Bibliografia:
1. PETERS T., Surviving the (Never-Ending) downturn. New Word City, 2013
2. PETERS T., Excellence Now: Innovation. New Word City, 2012
3. PETERS T., Really First Things First. New Word City, 2012
4. PETERS T., The Little Big Things: 163 Ways to Pursue EXCELLENCE. Harper Business, 2012
5. PETERS T., Leadership. DK Adult, 2005
6. PETERS T., Talent. DK Adult, 2005
7. PETERS T., Design. DK Adult, 2005
8. PETERS T., Trends. DK Adult, 2005
9. PETERS T., Leadership. DK Adult, 2005
10. PETERS T., Re-Imagine! Business Excellence in a Disruptive Age. DK Publishing, 2003
11. PETERS T., The Brand You 50 : Or : Fifty Ways to Transform Yourself from an ‘Employee’ into a Brand That Shouts Distinction, Commitment, and Passion!. Knopf, 1999
12. PETERS T., The Project 50 (Reinventing Work): Fifty Ways to Transform Every “Task” into a Project That Matters!. Knopf, 1999
13. PETERS T., The Professional Service Firm50 (Reinventing Work): Fifty Ways to Transform Your “Department” into a Professional Service Firm Whose Trademarks are Passion and Innovation!. Knopf, 1999
14. PETERS T., Thriving on chaos: Handbook for a management revolution. Harper Perennial, 1998
15. PETERS T., The Circle of Innovation: You Can’t Shrink Your Way to Greatness. Knopf, 1997
16. PETERS T., The New Masters of Excellence. Nightingale Conant, 1996
17. PETERS T., The Tom Peters seminar: crazy times call for crazy organizations. Vintage, 1994
18. PETERS T., The pursuit of wow! Every Person’s Guide to Topsy-Turvy Times. Vintage, 1994
19. PETERS T., Liberation Management: Necessary Disorganization for the Nanosecond Nineties. Knopf, 1992
20. PETERS T. – AUSTIN N., A passion for excellence: the leadership difference. Grand Central Publishing, 1989
21. PETERS T. – WATERMAN R.H., In search of excellence: lessons from America’s best run companies. Harper Collins, 1982
Richard Normann (1943 – 2003). È stato uno scrittore e un consulente direzionale svedese. Dopo essersi laureato ed aver ottenuto un PhD nel 1975 presso l’università di Lund, ha intrapreso la sua carriera di consulente presso l’Istituto Scandinavo di ricerca amministrativa di cui è stato anche presidnte tra il 1976 e il 1980.
È a Normann che si riconduce il concetto di “Mission”
Bibliografia:
1. NORMANN R. – ARVIDSSON N., People as care catalysts: from being patient to becoming healthy. Wiley, 2006
2. NORMANN R., Reframing business: when the map changes the landscape. Wiley, 2001
3. NORMANN R. – RAMIREZ R., Designing interactive strategy: from value chain to value constellation.Wiley, 1998
4. NORMANN R., Service management: strategy and leadership in service business. Wiley, 1991
5. NORMANN R. – ADLER N., Management for growth. Wiley, 1977
Nato a Vienna nel 1937, Peter Drucker è stato professore, scrittore e consulente aziendale. Si definiva come un “ecologista sociale” per il modo in cui osservava gli esseri umani interagire ed organizzarsi tra di loro, allo stesso modo in cui un ecologista osserverebbe un ambiente biologico. Nelle sue opere predisse molti fenomeni economici e sociali che avrebbero caratterizzato gli ultimi decenni del XX secolo come la privatizzazione, il decentramento, l’importanza delle innovazioni di marketing e la nascita della società dell’informazione, tanto da coniare nel 1959 il termine “knowledge worker”, riferito ad un uomo che per lavorare utilizza la propria testa più che la propria schiena.
Durante gli anni ’40 in uno dei molti progetti di consulenza svolti per la General Motors, Drucker conobbe l’allora presidente Alfred Sloan, il quale in un episodio gli disse: “Un manager deve essere tollerante e non prestare attenzione a come un dipendente svolge il suo lavoro…gli unici criteri di valutazione devono essere le performance ed il carattere”. Alfred Sloan divenne per Drucker il modello ideale di executive.
Nella sua opera The Practice of Management Drucker propose il Modello di gestione per obiettivi, noto come Management By Objectives (MBO), al fine di rispondere a due principali esigenze: la prima è rappresentata dal perseguimento di una chiara strategia di lungo periodo, che valorizzi le potenzialità e le risorse presenti nell’azienda; la seconda è data dalla crescita culturale del management a tutti i livelli dell’organizzazione. Possiamo definire il Management By Objectives come un processo attraverso il quale i manager devono identificare congiuntamente gli obiettivi comuni; definire le aree di responsabilità individuale in termini di risultati attesi; e infine devono avvalersi delle misure ottenute come guide per stimate il contributo di ciascuno dei membri oltre che il funzionamento delle unità lavorative con lo scopo di migliorare l’efficacia e l’efficienza del conseguimento degli obiettivi generali ed individuali.
Il Management By Objectives facilita la realizzazione effettiva del decentramento di responsabilità e della delega di autorità con lo scopo di ottenere la massima partecipazione delle risorse umane al conseguimento dei risultati aziendali. Consente di definire, formalizzare e controllare gli obiettivi e i parametri di risultato per le Unità Organizzative ed i loro Responsabili, e di realizzare la valutazione delle prestazioni individuali. Si tratta quindi di un processo complesso che parte dalla definizione degli obiettivi strategici per poi tradurli in obiettivi operativi di settore e declinarli in piani di azione ed infine in obiettivi individuali.
Il Management By Objective ha lo scopo di evitare che ci si perda nei dettagli. Drucker si era accorto che i manager potevano restare bloccati in quella che definiva la trappola dell’attività, activity trap, ossia l’eccessivo coinvolgimento dei manager nelle attività quotidiane, distogliendo attenzione e risorse ad attività di più lungo respiro. Il Management By Objective è un invito a concentrarsi sui risultati, anziché sulle attività, per questo motivo che spesso viene chiamata gestione per risultati.
Uno dei punti chiave del Management By Objective è la comprensione degli obiettivi e la loro condivisione da parte di tutti i manager. Una volta che ognuno ha i suoi obiettivi specifici, coerenti gli uni con gli altri, e ritengono sotto controllo, si misurano e, ove necessario, modificano le iniziative volte al raggiungimento, l’azienda dovrebbe essere in grado di ottenere i migliori risultati possibili da risorse necessariamente finite.
Quando si intraprende un’azione chiave o si prende una decisione importante, si esplicita per iscritto cosa ci si aspetta da essa. Man mano che i risultati diventano disponibili, si procede regolarmente a confrontare le aspettative con ciò che è realmente accaduto. Infine viene fatta una verifica, la quale serve a stabilire in cosa si è bravi o meno, cosa occorre cambiare e dove bisogna esercitare pressione; infatti per mantenere il processo in carreggiata occorre esaminare regolarmente i progressi compiuti verso il raggiungimento degli obiettivi e valutare le prestazioni dei dipendenti.
Al fine di ottenere gli obiettivi concordati i manager dovrebbero stipulare un contratto per obiettivi con i propri dipendenti, invece di indicare loro nel dettaglio come dovrebbe essere eseguito il lavoro. Quindi, coloro che raggiungono i risultati stabiliti vengono premiati, mentre coloro che non li raggiungono verranno puniti, almeno così avveniva nella versione pura del Management By Objective.
Ciò che può compromettere la giusta direzione all’interno del gruppo manageriale può essere la struttura retributiva. La retribuzione è un costo per l’impresa, mentre è un reddito per chi la riceve, ma esprime sempre anche uno status, sia all’interno dell’impresa che della società: implica dei giudizi di valore sulla persona e sulla sua prestazione, è legata emotivamente a tutte le nostre idee di imparzialità, giustizia ed equità. La retribuzione deve sempre cercare di equilibrare il riconoscimento dell’individuo con le esigenze di stabilità del gruppo. Il piano retributivo migliore possibile deve essere una compromesso fra le varie funzioni e significati della retribuzione, sia per l’individuo sia per i gruppi. La retribuzione riveste un’importanza per i manager che va ben al di là del suo significato economico: comunica loro la valutazione dei loro capi, ed il prestigio che essi stessi hanno all’interno del gruppo manageriale; esprime in forma chiara e tangibile la posizione di un uomo, il suo livello ed il modo in cui è considerato all’interno del gruppo.
I vantaggi ottenibili attraverso il Management By Objectives sono riassumibili nei seguenti concetti:
A) Aspetti motivazionali derivanti da obiettivi chiari;
B) Miglior gestione;
C) Organizzazione chiara;
D) Impegno personale;
E) Sviluppo di controlli effettivi
Mentre i limiti-svantaggi del Management By Objectives sono:
A) Il processo di fissare e rivedere gli obiettivi produce molta burocrazia e richiede molto tempo;
B) E’ importante scegliere delle mete che siano realizzabili. Gli obiettivi devono essere SMART (Specific, Measurable, Achievable, Realistic, Time-related);
C) La gestione basata sui risultati, premiazione e penalizzazione, può esercitare effetti distorsivi sulla formazione di gruppi di lavoro, sul morale e perfino sull’etica del comportamento, dato che i dipendenti possono modellare le cifre;
D) Richiede una grande quantità di tempo;
E) Incrementa il volume dei documenti in circolazione nelle diverse aree dell’azienda;
F) Vi è il rischio di non porre sufficiente attenzione agli obiettivi qualitativi;
G) Si possono generare dei contrasti tra i diversi manager esistenti, data la difficoltà nello stabilire gli obiettivi e il possibile fallimento nella trasmissione delle linee guida riguardo la fissazione degli obiettivi
In conclusione possiamo affermare che il Management By Objectives al fine di essere correttamente applicabile richiede una struttura organizzativa flessibile, un sistema informativo che consenta controlli tempestivi con lo scopo di migliorare il processo di decision-making o la revisione periodica dei risultati ottenuti, è necessari una chiara determinazione delle funzioni aziendali e infine richiede meccanismi idonei all’individuazione delle capacità potenziali del personale disponibile, attraverso piani di formazione e di addestramento mirati.
Alcune delle sue opere principali sono:
1. DRUCKER P., Managing in the Next Society, St. Martin’s Press, 2002
2. DRUCKER P., Time of Great Change, Harvard Business Press, 1995
3. DRUCKER P., Managing in Turbulent Times, HarperCollins Publishers, 1980
4. DRUCKER P., Management: Tasks- Responsibilities- Practices, HarperCollins Publishers, 1973,
5. DRUCKER P., Managing for Results, 1964
6. DRUCKER P., The Practice of Management, Harper New York, 1954
7. DRUCKER P., Concept of Corporation, John Day, 1946
Nel 1978 appena entrato in Scuola di direzione (Sda-Bocconi), i miei “capi” colsero nel sottoscritto una certa disponibilità a fare e una propensione all’innovazione. Così, senza esitare mi misero a fare fotocopie per i partecipanti al nostro Mba, allora si usavano ancora, e vi aggiunsero le recensioni di libri per quella che allora era la Rivista di Management più vicina alla scuola: Sviluppo & Organizzazione. Due attività che svolsi con molto entusiasmo: facevo una copia in più dei materiali Master per la mia biblioteca personale e la arricchivo, in modo gratuito facendo le recensioni, con alcuni volumi di cui ancora oggi ne ricordo il portato e l’interesse. Uno di questi fu “The art of problem solving” di Russell Ackoff (1978), uno studioso che già conoscevo in quanto proveniente dall’area della Ricerca Operativa, che da studente adoravo. Quel “volumazzo” (510 pagine) aveva un titolo per me accattivante: “La ricerca operativa. Principi, metodi tecniche” (Etas Kompass, Milano 1972). Forte di un maestro come il Prof. Francesco Brambilla e delle mie votazioni in matematica e statistica, mi innamorai di quel libro dai contenuti fortemente quantitativi. Ma rimasi una seconda volta “folgorato” da Ackoff quando nel 1976 lessi la seconda edizione in italiano di “A Concept of Corporate Planning”, pubblicata da F. Angeli con un titolo non proprio perfetto “La programmazione aziendale”. Diversi passaggi di questo contributo sono tuttora di grande utilità:
a. Quando ricorda la natura della pianificazione come: 1) qualcosa che si compie prima di intraprendere l’azione (processo decisorio anticipatore); 2) qualcosa che comporta una serie di decisioni interdipendenti, un sistema di decisioni da comporre se si vuole tentare di andare verso la situazione futura desiderata; 3) un processo che si prefigge di definire come andare verso la situazione auspicata, ma che richiede poi l’attuazione di quanto pianificato;
b. La pianificazione non deve essere delle risorse finanziarie, ma deve interessare gli approvvigionamenti di materie prime, le persone e altri investimenti;
c. “saggezza è la capacità di saper vedere le conseguenze a lungo termine delle azioni presenti, la disponibilità a sacrificare guadagni immediati a favore di vantaggi a lunga scadenza, ma più significativi, e anche la capacità di pianificare e tenere sotto controllo ciò che può essere pianificato e controllato, senza peraltro angustiarsi per tutto quanto non può esserlo. È dunque chiaro che l’essenza della saggezza si identifica con l’interesse per il futuro”, ma non da indovino, bensì da persona che “cerca di controllare l’avvenire”, di preparare il futuro.
Da ultimo, nell’appendice di questo libro, emergono i tratti di uno studioso dalle solide basi matematiche: viene proposta un’anticipazione di quanto la letteratura avrebbe suggerito. Ackoff descrive, con semplicità, come e perché elaborare un modello di simulazione per tentare di presagire l’effetto di determinate decisioni. Rimasi quindi colpito quando lessi The Art of problem solving pubblicato nel 1978. Lo trovai geniale: accompagnava le sue teorie sulla risoluzione dei problemi con delle Ackoff’s Fable e dei disegni che illustravano alcune idee dell’autore a mano di Karen Ackoff Alcuni passi, utilizzando le parole dell’autore, ci spiegano il senso di questo lavoro che desiderava, fuor di metafora, far percepire la scelta del titolo: “gran parte della mia attività di studioso è stata dedicata all’analisi del processo di problem solving. In un primo tempo ho considerato questo processo da un punto di vista filosofico. In seguito l’ho approfondito da un punto di vista scientifico. Ora mi trovo ad affrontare il tema come art of problem solving poiché sono convinto che qualsiasi tipo di problema si debba affrontare, la sua soluzione richieda estro artistico e l’arte implica creatività” (TdA, Prefazione, pag. IX).
Diversi passaggi meritano attenzione. Nel primo capitolo dopo aver enfatizzato il ruolo della creatività, si evidenzia quanto questa sia bloccata a livello individuale da autoimposti vincoli di varia natura. Nel secondo capitolo si sottolinea come questi vincoli si riflettano anche sulla percezione che l’individuo ha dei propri obiettivi e degli obiettivi di eventuali altre persone coinvolte nella soluzione di un problema. Probabilmente, secondo l’Autore, una più accurata comprensione della pluralità di questi obiettivi e delle loro interrelazioni può migliorare l’efficacia di certe risoluzioni. Alla ricerca, alla selezione e all’analisi delle variabili, distinte in controllabili e non controllabili sono dedicati il terzo e il quarto capitolo. In particolare, si sottolinea la non rilevanza di certe informazioni rispetto al problema da risolvere, come poi riprenderà nei suoi lavori anche Herbert Simon, il che dipende dal criterio di rilevanza prescelto e poi applicato. Nel quinto capitolo, infine, l’autore evidenzia e sottolinea l’erroneità di processo che tenda ad isolare il singolo problema, trascurando il fatto che alcune parti di questo sono interrelate ad altri problemi e presenta un approccio che permetta di cogliere tali interrelazioni. In proposito non è un caso il coinvolgimento di Ackoff, da parte del Governo americano, per l’interpretazione dei problemi terroristici. La parte centrale e quella conclusiva del libro sono dedicate ad una messa a fuoco dei principali concetti e delle procedure presentate attraverso la presentazione e lo studio di situazioni aziendali ed organizzative. Ma uno studioso come Ackoff non poteva desistere dal proposito di ricondurre il tutto ad una visione sistemica. Così, nel ventesimo ed ultimo capitolo presenta il modello concettuale e spiega perchè questo è necessario: “Il problem solving richiede un approccio sistemico poiché le 3 principali funzioni – solving problem, controlling solutions and identifying an anticipating problems- insieme al supporto del sistema informativo sono ad alto grado di interdipendenza.” (pag.190).
Alla luce dell’interesse suscitato in me da questi tre contributi, decisi di approfondire anche altri contributi di questo studioso. Così scoprii che dopo l’era del Corporate Planning e prima delle Favole ci fu un lavoro non da tutti conosciuto e scritto con uno dei principali studiosi delle organizzazioni interpretate come sistemi socio-tecnici: Frederik E. Emery. Il titolo del libro era emblematico: “On Purposeful systems. An Interdisciplinary Analysis of Individual and Social Behavior as a System of Purposeful Events”. Siamo nel 1972. La collaborazione con Emery durò nel tempo. Ancora in una raccolta di articoli del 1980, curata da F. Emery (“La teoria dei sistemi” F. Angeli; titolo originario: Systems Thinking, Penguin Book), Ackoff forniva un suo contributo dal titolo: “Systems, Organizations, and Interdisciplinary Research”. A questo lavoro seguì una sua possibile applicazione in “Redesigning the Future: A systems approach to Societal Problems” (Wisley. 1974). È da sottolineare che l’approccio dell’autore, nei precedenti scritti molto accademico, con “The art of problem solving” si fece più divulgativo, è questo, a mio avviso, fu un grande suo merito.
Così negli anni successivi passai spesso nella redazione di Sviluppo & Organizzazione, alla ricerca di suoi libri da recensire. Ma ormai si era sparsa la voce. La concorrenza per presentare i lavori di Ackoff si era fatta agguerrita. Questo non mi impedì di continuare a seguirlo. Così, rimasi nuovamente colpito quando di questo studioso trovai nelle libreria, tradotto a stampa di F. Angeli un altro volume spiazzante: “Management a piccole dosi”. Questo lavoro fu la fonte di idee cui ci ispirammo nel mettere a punto Manage-Mind e nel proporre sulla nostra piattaforma la rubrica: Pillole di Management che lanceremo dopo la Pasqua del 2021 e che mensilmente tratterà in “Pillole” temi di una certa rilevanza per chi ha deciso di migliorare l’efficacia della propria azione manageriale. Inizieremo con un nuovo approccio alla pianificazione: pianificazione all’indietro o Interactive planning. Ma durante il mio percorso di ricerca e di studio ritrovai spesso questo docente della Wharton School, Università della Pennsylvania. I suoi libri sono stati fonte di ispirazione su molti temi: come ho già ricordato per l’idea delle imprese come sistemi socio-tecnici aperti (Emery Ackoff, 1972), teoria ripresa e sviluppata trenta anni dopo in “The Re-creating Corporation. A design of Organizations for the 21st Century” (Oxford, 1999). Da questo lavoro vi riporto alcune riflessioni sulla criticità del tema proposte dal suo amico e collega Peter Drucker e riportate come “citazione-occhiello” nelle prime pagine del libro: “No century in recorded history has experienced so many social transformations and such radical ones as the twentieth century. They, I submit, may turn out to be the most significant events of this, our century, and lasting legacy. In the developed free-market countrie-wich contain less than a fifth of the earth’s population but are a model for the rest- work and work force, society and polity, are all, in the last decade of this century, qualitatively and quantitattively different not only from what they were in the first years of this century but also from what has existed ad any time in history: in their configurations, in their processes in their problems and in their structures”.
“Nessun secolo nella storia documentata ha sperimentato così tante trasformazioni sociali e così radicali come il ventesimo. Queste, sostengo, potrebbero rivelarsi gli eventi più significativi di questo nostro secolo e un’eredità duratura. Nei paesi sviluppati, basati sul libero mercato, che raccolgono poco meno di un quinto della popolazione terrestre e sono un modello per il resto del mondo, il lavoro e la forza lavoro, la società e il sistema politico sono, nell’ultimo decennio del Novecento, così qualitativamente e quantitativamente diversi sia da ciò che erano nei primi anni di questo secolo, sia anche da ciò che è esistito negli anni: sono diversi nelle loro configurazioni, nei loro processi, nei loro problemi e nelle loro strutture” (Peter Drucker, The Age of Social Transformation, Atlantic Monthly-November 1994).
D’altra parte per me è “musica” veder suggerito un processo manageriale caratterizzato da: Planning, Design, Implementation and Learning. Ci credo molto. Così come sono convinto che in questo processo l’ultima fase quella di Controllo, quella che segue l’attuazione di quanto progettato, è particolarmente “critica” poiché è in questa fase che si deve attivare l’apprendimento. Lo stesso Ackoff enfatizza queste fasi con un capitolo, l’ottavo, dal titolo significativo: “Implementation and Control: Doing it and Learning”. Inoltre, questo processo manageriale dovrà caratterizzarsi, nel pensiero dell’Autore, per il rispetto di alcuni principi non sempre enfatizzati da altri studiosi:
a. il Planning dovrebbe essere basato più che sulla tradizionale pianificazione prospettica legata al futuro immaginato, su una pianificazione introspettiva (interactive planning); con essa si muove da ciò che siamo per definire ciò che si vuole essere, una pianificazione dove lo scenario è solo di sfondo e non è la colonna portante per definire “ciò che si vuole essere”;
b. mentre nella fase di Designs occorre prestare attenzione ai principi che dovrebbero guidare i sistemi economici: Democracy, Libero Mercato e Strutture flessibili e multidimensionali.
L’approccio Interactive all’attività di planning trova le sue motivazione negli andamenti altamente imprevedibili dell’ambiente esterno e di sorprese che possono spiazzare i contenuti dettagliati di un piano definiti in base a certe ipotesi di dinamiche ambientali. Questo è il link per approfondire quest’approccio alla pianificazione.
Il pensiero di Ackoff e le parole di Drucker, ricordate qualche riga fa, possono apparire profetiche. Ma questa non è una novità. Chi mi conosce sa che è la capacità di anticipare l’evoluzione dei tempi quella che mi porta ad intravedere in uno studioso una Beautiful Mind. Da sempre ho riconosciuto questa capacità a Peter Drucker, per cui abbiamo già dedicato uno spazio nella nostra sezione a questo studioso. Ma ci ritorneremo per un approfondimento. Così, se oggi l’ambiente esterno ci sembra caratterizzato da eventi difficilmente prevedibili e ad alto impatto, questo non ci deve spingere a non pianificare. Certo in questo contesto la pianificazione strategica, così come è spesso svolta nelle imprese appare, come Ackoff stesso ci ricorda nel titolo stigmatizzante di uno dei suoi ultimi articoli (2004). La pianificazione strategica è come un antico rituale che non sempre porta ai risultati sperati: “The Corporate Rain Dance”.
Con questa riflessione ora vi lascio ancora in compagnia di Russell Ackoff e con un suo simpatico Podcast del 2005 in cui gli risultava difficile restare serio. D’altra parte aveva appena fatto “la danza della pioggia”. Il titolo di questo Podcast è: “Doing the Wrong Thing Right“ ed il link è questo. Spesso in azienda e nella vita è così: “si fa la cosa sbagliata in modo giusto”.
Nato a Instabul nel 1841, Henri Fayol studiò dapprima a Lione e poi all’École Nazionale des Mines di St. Etienne. Si diplomò nel 1860 e fu assunto da Commentry-Fourchamboult-Décazeville, un’azienda mineraria francese dove trascorse tutta la sua carriera, assumendone la direzione generale dal 1888 al 1918.
Considerato come uno dei precursori del management, pubblicando il suo libro Administration Industrielle et Générale nel 1916, ha creato la prima teoria dell’amministrazione generale e la dichiarazione dei principi di amministrazione. Fayol diede una prima definizione di manager attraverso l’individuazione di cinque azioni che doveva svolgere il manager stesso:
1. previsione e programmazione: analizzare il futuro e tracciare il piano d’azione. La pianificazione deve essere coordinata nei diversi livelli e con differenti orizzonti temporali;
2. organizzazione: costruire la struttura, materiale ed umana, dell’impresa;
3. comando attribuire compiti al personale: la conoscenza approfondita del personale da parte dei manager consente di creare unità, sinergie, iniziative e rendere il personale affidabile eliminando le incompetenze;
4. coordinamento: legare insieme, unificare e armonizzare tutte le attività e gli sforzi attraverso conferenze settimanali con i diversi responsabili;
5. controllo: controllare che tutto si svolga in conformità con le regole stabilite e gli ordini impartiti. Identificare i punti di debolezza e gli errori attraverso il meccanismo di feedback.
Alle cinque funzioni essenziali dell’azienda possiamo aggiungerne una di fondamentale importanza: la funzione direttiva. Nella funzione direttiva rientrano diverse attività tra le quali ricordiamo la realizzazione del programma d’azione dell’impresa, la costituzione di una struttura sociale, il coordinamento degli sforzi e l’armonizzazione delle azioni.
La salute e il buon funzionamento dell’organismo sociale dipendono da un certo numero di principi. I principi sono elastici e suscettibili di adattarsi a tutte le occorrenze, si tratta di sapersene servire. Fayol individuò quattordici principi generali del management i quali consentono di creare valore per l’azienda. Essi sono:
1. divisione del lavoro: la specializzazione permette all’individuo di accumulare esperienza e migliorare continuamente le sue capacità, in tal modo egli può essere più produttivo;
2. autorità: intesa come il diritto e la capacità di impartire comandi, in sinergia con la equilibrata responsabilità per la funzione esercitata. Un leader capace dovrebbe possedere e infondere in coloro che gli stanno accanto il coraggio di assumersi responsabilità;
3. disciplina: i dipendenti devono rispettare i comandi, le regole e le procedure stabilite;
4. unità di comando: ogni lavoratore dovrebbe avere un solo capo, senza altre linee in conflitto di comando;
5. unità di direzione: persone impegnate nello stesso tipo di attività devono avere gli stessi obiettivi in un unico piano. L’unità di comando non esiste senza unità di direzione, ma non necessariamente scaturisce da essa. “..una sola mente e un solo per piano per un insieme di attività con lo stesso obiettivo: è la condizione essenziale per avere unità d’azione, coordinamento delle forze e concentrazione degli sforzi..”;
6. subordinazione degli interessi individuali all’interesse generale: sfida che il management deve affrontare;
7. giusta retribuzione per lo sforzo compiuto: i sistemi di retribuzione stimolano la partecipazione dei dipendenti a tutti i livelli;
8. centralizzazione o decentramento: dipende strettamente dalle condizioni del business e dalla qualità del personale;
9. catena scalare ovvero principio gerarchico di gestione: una gerarchia è necessaria per l’unità di direzione. Allo scopo di mantenere la sua efficacia il numero di livelli fra l’autorità principale e il livello più basso dell’organizzazione deve essere il più contenuto possibile;
10. ordine: sia l’ordine materiale che l’ordine sociale sono necessari. L’ordine sociale richiede una precisa conoscenza delle esigenze umane e delle risorse dell’azienda nonché la ricerca di un costante equilibrio fra i due;
11. equità nel trattamento dei dipendenti: chi è a capo dell’azienda dovrebbe adoperarsi per trasmettere un senso di equità per tutti i livelli della catena scalare;
12. stabilità del posto di lavoro: i dipendenti lavorano meglio se la sicurezza del lavoro e le possibilità di carriera sono loro garantiti. Condizioni insicure e un alto tasso di turnover del personale, influiscono negativamente sul futuro dell’organizzazione;
13. iniziativa: l’iniziativa di tutti, in aggiunta o, se necessario, ad integrazione di quella del manager, rappresenta una grande fonte di energia per l’azienda. Il manager deve essere in grado di sacrificare parte del suo orgoglio per dare questo tipo di soddisfazione ai dipendenti;
14. esprit de Corps: i manager devono nutrire e favorire il morale dei dipendenti. E’ necessario un vero talento per coordinare gli sforzi, utilizzare le abilità di ogni persona, e premiare il merito, senza suscitare gelosie o disturbare rapporti interpersonali.
Sotto molti punti di vista, si ritiene Fayol il primo pensatore di management nel vero senso della parola. Mentre altri studiosi si concentravano sul lavoratore e sui meccanismi della performance, egli puntò l’attenzione sul ruolo del management e sulle competenze essenziali che si esigevano dai manager. Fayol riteneva che per ottenere la migliore performance dalla propria forza lavoro un manager dovesse avere qualità di leadership, conoscere la propria azienda e i propri dipendenti ed essere capace di infondere il senso della missione.