La strategia aziendale, da quando Kenneth Andrews nel 1981 ne ha delineato i confini, si occupa di definire “dove competere”, in quali mercati e “come competere”, con quali modalità e scelte competitive farlo. Molto speso i mercati a cui un’impresa dedica la sua attenzione, soprattutto se è un’impresa di piccole-medie dimensioni, sono quelli geograficamente più vicini e rientranti nel più ampio mercato domestico. La decisione di “dove competere” è quasi automatica. Non è così quando si pensa alla conquista di mercati esteri.
Con il passare del tempo, infatti, i mercati domestici possono rivelarsi insufficienti a raccogliere tutta la capacità di offerta di un’impresa e quindi si va alla ricerca di nuovi mercati, magari all’estero.

Ma dove andare a cercare i nuovi clienti e nuovi mercati?

Per rispondere a questa domanda Galbusera, nel suo libro Esportare in 7 mosse, propone un metodo e degli strumenti, semplici da applicare, ma efficaci. Per inciso, il metodo e gli strumenti proposti sono applicabili anche per aiutare a riflettere sul mercato domestico e quindi utilizzabili per impostare in generale un Budget delle vendite. Questo è il punto di partenza per qualsiasi avveduto responsabile di un’impresa, sia imprenditore che manager, che voglia preparare il futuro della propria azienda. Ma questo è anche l’anello debole nella prassi dei vertici di molte imprese italiane. Cercare di impostare in modo diverso e più sistematico questi ragionamenti sul mix dei Fatturati di un’impresa è oggi una fonte di possibili vantaggi competitivi. In proposito, in questo lavoro, non manca neanche qualche spunto per riflettere sui concorrenti che non sono solo quelli “identici” all’impresa per la quale si sta cercando di costruire il futuro. Sono invece tutti quelli che per prodotti/servizi offerti e per competenze sono già simili o sono in grado di convertire queste loro caratteristiche in un’offerta identica o migliore di quella della realtà di cui si fa parte.
Il motivo, per cui oggi esportare e/o internazionalizzarsi è esiziale, è facile da cogliere. Quello che normalmente poteva succedere per un contatto casuale, è diventato un imperativo “categorico” dal settembre 2008. Da questa data in poi, dopo la crisi dei mercati finanziari, molti mercati risultarono in sensibile frenata, per non dire “inchiodati” e richiesero azioni volte a trovare nuovi mercati di sbocco all’estero. Chi aveva già attuato delle strategie per la conquista di tali mercati in quel momento risultava avvantaggiato: si trovava già nell’ottica di chi esporta i propri prodotti/servizi.
Oggi si suggerisce di affiancare a queste politiche anche azioni che portino verso l’attuazione di una più ampia strategia di internazionalizzazione. Questa significa una “presenza fisica”, non solo con i propri prodotti/servizi, in prescelti mercati esteri.
D’altra parte per uscire dalle sacche di una crisi (2008-2014), che si è rivelata tra le più lunghe mai registratesi, per le imprese le due ricette, indicate dagli studiosi di management, e ritenute le due strategie praticabili a più alta probabilità di impatto positivo, sono state: internazionalizzazione o innovazione nei prodotti/servizi.
Ebbene per attuare la prima strategia si ritiene un valido punto di partenza quello di imparare ad esportare. Avere a che fare con clienti esteri, in modo diretto o tramite agenzia, aiuta a capire quanto possano essere diversi questi clienti da quelli domestici abituali, come diversi sono i Fattori Critici di Successo ai quali si deve imparare a rispondere se si vuole conquistare il cliente e fidelizzarlo nel tempo. Molti, per esempio, hanno capito a loro spese che pur essendo i tempi di consegna una variabile fondamentale anche per i clienti di cultura tedesca, loro non richiedono la tempestività delle consegne, bensì la puntualità. Fattore critico per soddisfare il quale quello che conta non è la flessibilità produttiva ma la capacità di programmazione della produzione.
Inoltre ci si deve spesso confrontare con le differenze culturali, spesso rilevanti, che contraddistinguono i clienti di Paesi a cultura europea da quelli asiatici o arabi. Insomma esportare è una palestra imprescindibile e fonte di esperienze sempre “costruttive”. Certo è importante attivare dei meccanismi di apprendimento che sia in caso di esperienze positive che negative aiutino un’impresa a crescere non solo in termini di fatturato.
In questi anni in molte imprese il peso dell’export, come incidenza sul fatturato globale è cresciuto, ma è necessario imparare da queste esperienze. Dedicare del tempo ad analizzare prima e interpretare poi i risultati di un’azione commerciale verso l’estero può essere arricchito dall’utilizzo degli strumenti suggeriti in questo lavoro. Oltre ai ricavi contano i margini, che in alcuni mercati si possono realizzare e in altri sono più difficili da conseguire
Imparare ad esportare con successo può essere il frutto di un processo da realizzare in 7 giorni come suggerisce l’autore, poiché è un processo che richiede metodo, impone dei momenti di riflessione e se ne può aumentare l’efficacia utilizzando pochi, semplici, ma preziosi strumenti. Con quest’approccio e una sua sistematica applicazione si può creare in azienda una “cultura aperta” a contesti internazionali. Anche per questo può costituire un primo passo per andare più in là, internazionalizzarsi e quindi aprire delle unità organizzative in Paesi diversi da quello originario. Ma anche se questo passo lo si ritiene troppo impegnativo, imparare ad esportare è un modo costruttivo non solo per crescere quantitativamente, ma per sviluppare la propria azienda: per una crescita qualitativa e cultura, oltre che una semplice crescita dei Ricavi, osservati nella loro componente tangibile.

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